Firmare l’Accordo con la Cina nel 2018 è stata per la Santa Sede la scelta giusta? A giudicare dai fatti, sembra di sì. Dopo l’incontro tra la delegazione vaticana e quella cinese a Tianjin nei giorni scorsi, si prevede che l’Accordo – in scadenza nel mese di ottobre – sarà rinnovato per la seconda volta, dopo il primo rinnovo del 2020.
A quattro anni di distanza, dunque, l’intesa tiene e la domanda che viene continuamente posta ai diplomatici vaticani – 'ci può fidare dei cinesi?' – trova così una risposta parziale ma concreta. L’Accordo non ha risolto tutti i problemi della Chiesa in Cina. Vero, ma questo si sapeva fin dall’inizio: i diplomatici vaticani lo hanno sempre sottolineato. Anche se circoscritto, inoltre, esso riguarda la questione più importante, la nomina dei vescovi, che è anche la chiave per risolvere tutti gli altri problemi. Infine, si tratta di un banco di prova attraverso cui ciascuna delle due parti può misurare l’affidabilità dell’altra in vista di ulteriori sviluppi. In un’ottica puramente politicodiplomatica, quest’avvio di relazioni con la Cina costituisce un grande successo del pontificato di papa Francesco. Ma la Santa Sede non l’ha mai voluto enfatizzare.
Da parte vaticana, infatti, non ci si accontenta e, presumibilmente, a Tianjin la delegazione arrivata da Roma ha riproposto tutte le sue richieste. Anzitutto, una modifica dell’Accordo, ampliandone i contenuti ed estendendolo nel tempo. E poi: il riconoscimento dei vescovi (clandestini) ancora non accettati dal Governo cinese; la presenza, informale e temporanea, di un rappresentante vaticano in Cina; la ridefinizione dei confini delle diocesi, stabiliti nel lontano 1946 quando la realtà cinese era completamente diversa… Nonché tutte le altre questioni legate alla limitazione della libertà religiosa.
E’ anche probabile che, lontano dai riflettori, i rappresentanti della Santa Sede abbiano fatto presente le loro preoccupazioni per la situazione il cardinale Zen (che tuttavia – diversamente da quanto scritto recentemente da una parte della stampa italiana – non si trova agli arresti domiciliari e dal prossimo giudizio di un tribunale di Hong Kong rischia una pena pecuniaria). Altra richiesta della delegazione vaticana quando va in Cina: incontrare vescovi cinesi. Questa volta – causa Covid – c’è stato solo l’incontro, commovente, con l’ultranovantenne vescovo di Tianjin, Melchiorre Shi Hongzhen e non era scontato visto che si tratta di un vescovo clandestino. In teoria, su alcuni temi, la Santa Sede potrebbe procedere da sola, ad esempio sui confini delle diocesi (anche se è abituale, in tutto il mondo, sentire su questo le autorità civili).
Molti premono sul Vaticano perché forzi le cose. Ed è probabile che a volte la pazienza dei negoziatori vaticani sia messa a dura prova. Ma, come ha detto recentemente il cardinale Parolin, «quando si tratta con qualcuno, bisogna riconoscergli la buona fede». Non sono parole buoniste e inadatte a un negoziatore consumato, ma l’abc stesso della diplomazia.
Quando – escluso l’uso della forza – si vuole coinvolgere qualcuno in un’azione comune o quando si sperano dall’altro scelte che dipendono esclusivamente da lui, non c’è altra strada che far leva sulla sua sincerità. Altrimenti, spiega il segretario di Stato vaticano, «il negoziato non avrebbe senso e non condurrebbe da nessuna parte» (il che, naturalmente, non significa chiudere gli occhi).
L’alternativa è dire pubblicamente «molte parole, diciamo, appropriate, che sarebbero apprezzate dalla stampa internazionale», ma che non migliorerebbero la situazione concreta dei credenti cinesi, come ha osservato monsignor Paul Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati. Interrompere il dialogo significherebbe rinunciare a quanto ottenuto finora, compromettere tutti gli altri obiettivi e abbandonare i cattolici di questo grande Paese al loro destino. Un prezzo troppo alto da pagare, non per la Santa Sede ma per la Chiesa in Cina: se le trattative proseguono non è per una bieca 'ragion di Stato', bensì per una più decisiva 'ragion di Chiesa'. Non si sa perché – dopo più di due anni dall’ultimo incontro – sia giunto proprio ora alla delegazione vaticana l’invito ad andare in Cina, quando ancora le misure anti-Covid sono molto severe.
Ma lo si può collegare al recente Congresso dei rappresentanti cattolici – che ha rinnovato i vertici del Collegio dei Vescovi e dell’Associazione patriottica – e all’annuncio che il XX Congresso del Partito comunista si aprirà il 16 ottobre. È probabile che si cerchi di sistemare tutte le questioni in sospeso prima di questo importante appuntamento politico. E Taiwan?
La Santa Sede mantiene tuttora relazioni diplomatiche con Taipei, seppure con un low profile. Nell’incontro non si è discusso di relazioni diplomatiche tra Vaticano e Pechino: da tempo si è deciso, di comune accordo, di risolvere tale questione dopo aver affrontato le altre. Ma ciò non significa che Taiwan non abbia avuto alcun peso. Dopo la visita di Nancy Pelosi, l’«Isola Bella» è al centro delle preoccupazioni delle autorità cinesi, che temono un ulteriore peggioramento dei rapporti con i Paesi occidentali e, persino, una guerra comunque devastante. A Pechino ci si guarda intorno, interrogandosi a fondo sulle vere intenzioni di tutti i soggetti internazionali. E indubbiamente la Santa Sede non fa parte del 'partito della guerra'.