L'incredibile favola per cui chi la difende non conosce la vita (e la sofferenza)
sabato 22 aprile 2017

Gentile direttore,
Davide Trentini malato di Sla ha ottenuto l’eutanasia che desiderava in Svizzera, a costi che ben sappiamo, dopo anni di sofferenze e di assunzione di marijuana per lenire il dolore. E nella sua ultima lettera ha scritto: «Spero che l’Italia diventi un Paese civile e faccia una legge sul fine vita». Le chiedo: ma per quale ragione una persona nel pieno delle sue facoltà mentali non può decidere di fare di sé ciò che desidera? Chi siamo noi, dico la società, a opporci, a decidere per lui. Chi ci dà tutta questa arroganza e presunzione? La libertà è libertà. Se la si vuole far valere per le scelte di vita, deve valere anche per la scelta di morire. Siamo sempre noi e il contesto è sempre lo stesso. Insomma, “no” all’eutanasia e “no” a questa legge sulle Dat perché? Qual è il danno che riceve la cosiddetta società perbene che tanto si oppone? Sono certo che questi signori, che vogliono decidere con supponenza per gli altri, hanno avuto la grande fortuna, in vita loro, di non aver mai conosciuto la sofferenza fisica che è tortura e non sempre è sopportabile.

Roberto Nuara, Monza

Mi colpisce sempre la veemenza con la quale i sostenitori dell’eutanasia accusano di non sapere nulla del dolore e della malattia quanti, come noi, non accettano invece l’idea di una “morte a comando” somministrata per forza di legge dello Stato. Che grande e tragica confusione c’è dentro questa presunzione, gentile signor Nuara... Lei, che pure sento sinceramente e pensosamente attento alle ragioni degli altri, pensa davvero che cattolici e laici che concepiscono una medicina ippocratica, al servizio della vita e non della morte, siano tutti dei marziani o dei privilegiati assolti dalla fatica di vivere e dal dolore della malattia? Un’incredibile favola nera. La mia esperienza, che è almeno pari alla sua, mi porta a dire l’esatto contrario di ciò che lei afferma: chi conosce davvero la malattia e la disabilità (che, come nel caso di Eluana Englaro, non sempre e non necessariamente coincide con la malattia) non ama la morte, e non la desidera né per sé né per chi ha accanto. La subisce o le va incontro, come parte della vita. E se ha princìpi e fede, come i cristiani, le dà il giusto valore.

Ho compassione e rispetto per il signor Trentini e leggo e ascolto con attenzione le parole che ha lasciato e che interpellano e commuovono anche me. So bene, per di più, che cosa vuol dire lottare con una malattia come la sclerosi multipla (questa e non la Sla, a differenza di ciò che lei scrive, era la malattia del cinquantenne toscano). La Sm, che è progressivamente invalidante, colpisce – secondo stime attendibili – circa 110mila italiani. Tra essi ci sono diverse persone che conosco e stimo, alcuni miei cari amici e una donna – Francesca – a cui sono specialmente vicino e a cui voglio molto bene. Proprio oggi, poi, parteciperò da spettatore e da sostenitore, e non solo perché con “Avvenire” ne siamo media partner, a un evento musicale che vede protagonista il tenore lirico Marco Voleri, marito, padre e malato di sclerosi multipla. Si tratta della prima tappa del suo nuovo tour “Sintomi di felicità 2017” che tra gli altri artisti gli vedrà eccezionalmente accanto in questa occasione romana un pianista speciale e generosamente disponibile per le buone cause, il segretario generale del Sinodo dei vescovi, cardinale Lorenzo Baldisseri. Gentile signor Nuara, sono persone come Marco Voleri e come Francesca, sono esperienze dirette e crude non idee astratte che mi danno la forza di risponderle con serenità e con l’umiltà di chi si è messo in ascolto delle persone malate e disabili, del loro dolore, della loro sorprendente energia e della loro speranza sorretta – quando lo è e grazie a Dio e a uomini e donne di buona volontà lo è spesso – da corrette azioni di cura e da semplici eppure straordinarie reti di solidarietà. Sono i cammini percorsi personalmente – da figlio – accanto a mia madre Graziella, a mio padre Giorgio e al mio secondo padre Gino e al padre che è stato per tutti noi san Giovanni Paolo II ad aiutarmi a dire parole che è sempre difficile trovare. Sono i volti, i civili e vibranti appelli di vita, la schiettezza umana e la santità cristiana che ho incontrato in donne, uomini e bambini malati e disabili – e con quanta intensità in questi anni da cronista d’“Avvenire”! – che mi spingono a non lasciar correre davanti all’accusa, che rivolge anche a me, di «supponenza» di fronte al male e alla sofferenza. Non si offenda, ma ciò che lei afferma a questo proposito non è solo ingiusto è totalmente senza senso.

Penso che Davide Trentini al pari di ogni altro essere umano fosse libero di decidere per il bene o per il male, per la vita o per la morte. La nostra libertà è anche questo. E da cristiano so che Dio-Amore – il Padre della vita, il Figlio e Fratello che è morto e risorto per noi, lo Spirito che ci incendia se sappiamo accoglierlo – ci consegna tutta intera questa vertiginosa libertà. Per questo, da cittadino della città dell’uomo, penso che l’unica “opposizione” possibile a un suicidio tentato o richiesto non sia solo di testa, ma prima di tutto di cuore. Penso che stia nello slancio, che è impulso naturale e imperativo morale, di colui o colei che afferra la mano della persona che sta per lanciarsi nel vuoto. E penso che lo stesso sentimento porti, come ha detto il cardinale Edoardo Menichelli, assistente nazionale dei medici cattolici al nostro giornale, ad avere per chi in qualunque modo si toglie la vita non un giudizio, ma una carezza. Pensieri che mi conducono a una constatazione: nel mondo e in Italia – provo a dirglielo senza polemica, perché sono stanco di polemiche su questioni come questa – il problema non sia l’«opposizione alla morte» che lei chiama perbenista e che io riconosco come semplicemente e puramente umana e necessariamente ragionevole, ma una certa e pressante propaganda dell’idea di fissare per legge il «dovere di cooperare al suicidio» di un’altra persona.
E non c’entra il dolore insostenibile. Il dolore, gentile signor Nuara, si può combattere efficacemente. E non solo «assumendo marijuana», ma in molti modi e la buonissima legge italiana sulle cure palliative li conosce praticamente tutti. Si tratta di riconoscerlo, senza strumentalità. Senza farsi incantare, come sembra – sembra! – fare lei, dallo slogan “spinello libero e morte libera”.

Arrivo alla conclusione. L’Italia del Duemila ha ormai bisogno di una buona legge sul «fine vita», che assicuri consenso informato, tuteli dalle cure sproporzionate e dannosamente accanite, non fornisca alcun alibi all’abbandono terapeutico, rispetti la libertà delle persone tanto quanto la scienza e la coscienza del personale sanitario. Non ci serve, invece, una legge ambigua che genererebbe più contenziosi giudiziari, che rispetto delle persone e delle loro volontà. L’Italia, insomma, non ha bisogno che nel nome del libertarismo si arrivi a incrinare e persino a capovolgere i princìpi solidaristici e il favor vitae che Costituzione, ordinamento legislativo e deontologia medica pongono alla base della relazione tra medico e paziente, e tra luoghi di cura e malati e disabili. Sì, dunque, a una legge fatta bene, no a una legge mortalmente confusa; e mille volte no al conseguente avvio di derive verso la “morte a comando” per ordine o concessione dello Stato. Sembra banale dirlo, e preoccupa ritrovarsi a ricordare qualcosa che dovrebbe essere di solare evidenza.



© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI