Le notizie sulla diffusione del coronavirus stanno scatenando un inquietante effetto collaterale, in Italia e in altri Paesi: la ripulsa nei confronti di persone di origine cinese e a volte di altri asiatici, la sinofobia. La paura che gli stranieri (specie se poveri) diffondano malattie è antica e radicata. Ne abbiamo avuto recenti prove nel caso degli sbarchi di persone di origine africana, da alcuni additate come portatrici di Ebola, da molti altri tenuti alla lontana per presunti “rischi sanitari”. Ma non c’è stata notizia di vere o presunte epidemie che non abbia sollevato la richiesta di chiusura delle frontiere verso rifugiati e immigrati dal Sud del mondo.
In termini generali, le ricerche sull’argomento, come quelle condotte dalla Società italiana di medicina delle migrazioni (Simm), segnalano invece che i migranti sono selezionati alla partenza da un punto di vista sanitario: ben raramente famiglie e comunità investono i propri risparmi o s’indebitano per far partire persone malate. Si forma così un effetto definito dagli studiosi “migrante sano”. Sono semmai le condizioni di lavoro e di vita dopo l’arrivo a intaccare la salute degli immigrati.
Nell’emergenza attuale l’ondata sinofoba è però ancora più incresciosa, perché investe non soltanto le persone in arrivo dal gigante asiatico, ma anche cittadini cinesi e naturalizzati residenti qui da anni, attività commerciali, ristoranti, bambini che frequentano le scuole italiane, piccoli calciatori: tutte persone e famiglie che non hanno nessun rapporto con la città di Wuhan e la provincia di Hubei, epicentro dell’epidemia. In questo clima intossicato, il presunto allarme sanitario vorrebbe giustificare persino la discriminazione dei più piccoli e indifesi. Che non si tratti di un principio di precauzione un po’ dilatato è dimostrato dal fatto che, nel recente passato, l’esplosione di focolai di malattie infettive in alcune città e regioni italiane – a cominciare dalla Lombardia – non ha provocato particolari allarmismi, né cordoni sanitari “spontanei” intorno agli abitanti o alle persone originarie delle zone interessate.
Queste reazioni scomposte rivelano dunque alcuni aspetti preoccupanti dell’attuale tessuto sociale. In primo luogo, se non è giusto affermare che il popolo italiano sia razzista, è altrettanto sbagliato rifugiarsi nell’idea consolatoria secondo cui “gli italiani non sono razzisti”. Il razzismo del XXI secolo, non potendo più fare appello a ragioni “scientifiche”, cerca di volta in volta argomenti apparentemente razionali per sostenere la necessità di cacciare o emarginare le proprie vittime: può essere la disoccupazione, il terrorismo, la sicurezza, ora è il coronavirus. Il fatto che la sinofobia sia esplosa a ridosso della Giornata della memoria per le vittime della Shoah invita ad alzare la guardia contro le nuove forme di razzismo e pregiudizio etnico.
Al netto dell’azione degli imprenditori (politici e culturali) del rancore verso gli immigrati, la paura che si fa esclusione e discriminazione parla di un’Italia malata, essa sì, di perdita di punti di riferimento, razionalità di giudizio e fiducia sociale. Insicurezza, smarrimento, autoreferenzialità, ripiegamento privatistico generano mostri. La perdita di luoghi e forme di aggregazione, di maestri e guide sagge, abbassa la soglia di difesa contro paure irrazionali e aggressive.
In terzo luogo, viene da domandarsi dove siano gli anticorpi nei confronti della nuova caccia agli untori. Quali risposte vengano da responsabili scolastici, insegnanti e genitori delle scuole dove si discriminano i bambini cinesi, dagli allenatori e dirigenti delle squadre in cui vengono insultati, dal personale dei trasporti pubblici, ma più ampiamente dai cittadini che assistono a episodi di sinofobia, anche soltanto verbale. Suona per tutti noi la campana d’allarme, non contro il virus ma contro il razzismo che lo prende a pretesto.