Charlie e le domande che ancora pesano
giovedì 3 agosto 2017

Caro direttore,
la vicenda umana del piccolo Charlie Gard si è conclusa, ma gli interrogativi che ha suscitato restano aperti e le ferite che ha lasciato continueranno a sanguinare per molto tempo ancora. L’ospedale pediatrico londinese aveva tutto il diritto di rifiutare una cura di efficacia non dimostrata (ma gli abituali trials per la dimostrazione di efficacia dei farmaci e i criteri per la loro approvazione possono essere applicati alle malattie rarissime?).

Il Great Ormond però è andato ben oltre, pretendendo che senza terapie efficaci il bambino, nelle sue condizioni, non avesse più diritto di vivere. Solo l’opposizione tenace dei genitori ha fatto sì che il piccolo non fosse già morto da tempo e potesse giungere quasi al suo primo compleanno. Ma qui si pone un fondamentale quesito: può un’istituzione sanitaria decidere che un paziente non in grado di esprimere la sua volontà debba essere fatto morire 'nel suo interesse' sospendendogli i sostegni che lo tengono in vita? Questa decisione di affrettare intenzionalmente la morte per sottrazione di cure si chiama eutanasia omissiva. Ma Charlie fa scuola per ben altri motivi. Il conflitto tra équipe curante e familiari di pazienti non in grado di assumere decisioni non è infrequente in medicina, ma di solito viene portato davanti al giudice tutelare quando chi rappresenta legalmente il paziente rifiuta cure che i medici ritengono per lui fondamentali. È quanto prevede anche la legge sulle Dat all’esame del Senato (articolo 3, comma 5). L’Ospedale londinese non ha esitato ad attivare una lunga controversia giudiziaria che, mentre toglieva al bambino ogni residua piccola speranza di guarigione per il progredire della ma-lattia, sottraeva al papà e alla mamma di Charlie la potestà genitoriale, la libertà di scegliersi un’altra équipe medica e quella di recarsi all’estero.

Charlie per il Great Ormond doveva morire, al più presto, nel suo diretto interesse. L’eutanasia omissiva ha così assunto il sinistro colore della obbligatorietà. Il ragionamento secondo cui il rimanere in vita provocherebbe il prolungarsi di ulteriori sofferenze non riguarda però solo i neonati affetti da ma-lattie degenerative o da gravi malformazioni. Esso potrebbe essere riproposto per tutti i pazienti in condizioni di incoscienza per malattie ad andamento progressivo o comunque privi di speranze di guarigione o miglioramento, come quelli in stato vegetativo o con demenze in fase avanzata. Saranno anch’essi obbligati a uscire di scena nel loro migliore interesse? Per questo quanto è accaduto a Londra ci riguarda tutti. Lunedì 24 luglio il portavoce della Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles dichiarava: «Purtroppo, la malattia terminale prolungata fa parte della condizione umana. Non dovremmo mai agire con l’intenzione deliberata di concludere una vita umana, compresa la rimozione dell’alimentazione e dell’idratazione in modo da giungere alla morte. Tuttavia, a volte, occorre riconoscere i limiti di ciò che può essere fatto». La posizione dei vescovi inglesi non poteva e non può chiarire chi debba decidere per la sospensione del respiratore, nel caso di pazienti incapaci di farlo in ragione dell’età o delle condizioni mentali.

Davvero è compito di un ospedale proporsi in modo così duro contro i genitori attivando controversie giudiziarie? Non ritengo che sia questo il compito dell’ospedale di fronte a una malattia senza prospettive, né che sia dovere dell’ospedale esaurire i genitori in un’estenuante battaglia legale, arrivando infine a negare al bambino il diritto di morire a casa. Il portavoce del Great Ormond Street Hospital, con ironia dal gusto macabro, è arrivato ad affermare «Il rischio di una fine non pianificata e caotica della vita di Charlie rappresenta un risultato impensabile per tutti coloro che se ne preoccupano e deruberebbe i genitori degli ultimi preziosi momenti accanto a lui». Caro direttore, Charlie è stato forse ucciso da un «male inesorabile», ma è certamente morto il 28 luglio perché qualcuno ha deciso che fosse quello il momento di farlo morire con un approccio «pianificato e non caotico». Con la stessa pianificazione non caotica, senza la resistenza dei genitori sarebbe già accaduto mesi prima, non certo per l’evoluzione del male senza speranze da cui il bambino era affetto. Una porta si è aperta. All’orizzonte vi è già un nuovo caso. Anche il piccolo Alfie, affetto da una epilessia resistente alle terapie, sembra che debba morire. Nel suo miglior interesse, of course.

*Presidente del Movimento per la vita

Hai riassunto bene, caro presidente Gigli, anche da gran medico quale sei, gli elementi che hanno reso così importante, doloroso e struggente il caso del piccolo Charlie Gard. Elementi che abbiamo affrontato a fondo sulle pagine di 'Avvenire': facendo cronaca, puntuale e accurata, e dicendo tutto lo sconcerto e la ribellione umana e intellettuale di fronte alla incomprensibile e crudele 'tenaglia' fatta scattare da una scienza stavolta stranamente «rinunciataria» (rispetto alle possibilità di cura sperimentale cercata e costruita dai genitori del piccolo) e da una legge che si è mostrata «arcigna» (custodendo forme, uccidendo la speranza). Sino all’ultimo passaggio, quando abbiamo preso atto – con tenace speranza cristiana condivisa con Connie e Chris Gard – dell’esito atroce e tragico della tardiva e infine infausta ricerca concorde di famiglia, medici e magistrato di un’alternativa alla morte di Charlie. Ora, caro presidente, indichi anche tu un nuovo caso pronto a scuoterci. Temo che sarà così. E so che – nella mia responsabilità di cronista, e specialmente di direttore di questo giornale – devo aiutare quanti più posso a comprendere che c’è un problema di giustizia, di umanità e di buona medicina che riguarda tutti, eppure che nessun caso è del tutto uguale. Alfie Evans non è e non sarà Charlie. Charlie non è in alcun modo Eluana Englaro o Terry Schiavo e neppure èVincent Lambert… Oltre alla medicina anche la legge deve dimostrare alla gente semplice (e, presto o tardi, bisognosa di cure) di averlo chiaro e di saper servire la concreta esistenza delle concrete persone. Così a Londra non è stato. Per questo, ancor di più, l’opinione pubblica deve essere messa in condizione di capire e valutare senza confusioni. La vita va accolta e difesa sempre, l’aborto e l’eutanasia scongiurati, l’abbandono terapeutico combattuto e l’accanimento riconosciuto ed evitato. Appare complicato e non è sempre facile, ma è necessario e possibile. Ed è parte del campo di prova di un nuovo e urgente 'umanesimo concreto', che può e deve accomunare credenti, non credenti e credenti diversi da noi cristiani. (Marco Tarquinio)

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