Quante vite possono esserci in una vita sola. Dieci, cento, mille, forse di più. Il segreto sta nel trovare un filo rosso, un percorso comune, un orizzonte che le unifichi tutte. E allora l’itinerario, malgrado le buche e gli ostacoli, diventa una linea piana, una strada diritta, un sentiero di gioia. Nell’esistenza di Charles de Foucauld (1858-1916) che, notizia di ieri, sarà canonizzato il prossimo 15 maggio assieme ad altri sei nuovi santi, la sintesi, l’ingrediente che rende unica la ricetta, è stato il totale abbandono a Dio, la rinuncia radicale a se stesso, fino alla scelta del deserto come casa e destino. Prima rampollo di una famiglia bene, ufficiale dell’esercito, dandy gaudente, poi poverissimo, trappista, sacerdote innamorato dell’Eucaristia, precursore del dialogo, eremita e apostolo del silenzio. Umanamente un fallito, morto senza convertire nessuno al cristianesimo, ucciso da una banda di predoni là dove aveva scelto di abitare con il popolo Tuareg. Un piccolo uomo in apparenza dimenticato da tutti. In realtà un seme, un chicco di grano, quello che secondo le parole del Maestro «produce frutto» solo se muore, perché il segreto della felicità è lo svuotamento delle proprie certezze per lasciare posto a Dio. E si diventa Santi per dimenticanza: dei nostri desideri, degli agi mondani, dei sogni solo e unicamente umani.
«Dio costruisce sul nulla – scriveva Charles de Foucauld –. È con la sua morte che Gesù ha salvato il mondo; è con il niente degli apostoli che ha fondato la Chiesa; è con la santità e nel nulla dei mezzi umani che si conquista il cielo e che la fede viene propagata». Un vuoto che nelle mani del Signore si riempie di attenzione agli altri, diventa scuola di perdono, cresce come radice di un bosco immenso e meraviglioso. Si spiega così la fioritura spirituale seguita alla scomparsa del "piccolo fratello", la nascita dei tanti gruppi che gli si ispirano, delle famiglie religiose, diverse eppure accomunate dagli stessi princìpi: preghiera, vita fraterna, condivisione. Fino alla fede assoluta nella Provvidenza divina, quella che ti fa svuotare le dispense per soccorrere chi ha ancora meno di te. Non pauperismo o filantropia ma consapevolezza di essere, ogni uomo e ogni donna, figli dello stesso Padre, membri della medesima famiglia, perché tutti amati da Dio, perché Gesù è morto per ciascuno di noi. «Voglio abituare tutti gli abitanti del luogo, ebrei, cristiani, musulmani e idolatri a considerarmi il loro fratello, il fratello universale» - scriverà nel 1902 de Foucauld da Beni-Abbés nel deserto del Sahara - «gli indigeni cominciano a chiamare la mia casa la fraternità, e questo mi è dolce».
La statua a Charles de Foucauld a Strasburgo - .
Parole senza spine, delicate come una carezza, nate nel cuore di chi più che alla conversione degli altri, si sente chiamato a preparare l’annuncio, a togliere le erbacce per rendere il terreno pronto, docile all’evangelizzazione. Un impulso missionario fondato, per usare un’immagine cara sia a papa Francesco sia a Benedetto XVI, non sul proselitismo ma sull’attrazione, che nella vita del prossimo Santo significa anche imparare la lingua della gente, dialogare con lei, instaurare veri rapporti di amicizia, rispettare la cultura locale al punto da tradurre e commentare centinaia di poesie tuareg. Sempre evitando ogni protagonismo, nell’imitazione dell’esistenza «umile e oscura del divino operaio di Nazareth», del Gesù povero che sceglie l’ultimo posto. «Non si ama mai abbastanza – scriverà nella sua ultima lettera alla cugina Marie de Bondy – ma il buon Dio che sa con che fango ci ha modellato e che ci ama più di quanto una madre possa amare il suo bambino, ci ha detto "Colui che non mente non rifiuterà chi verrà a Lui"». A maggior ragione se la preghiera arriverà da un’anima nuda, sotto un sole cocente, nell’aridità di un terreno che non dà frutto. Ma attento e disponibile all’azione di Chi può tutto.
Charles de Foucauld è morto nel calore asfissiante del deserto ma quel manto giallo che annebbia la vista era solo un’apparenza, una copertura, una carta velina. Perché sotto già si vedeva, stava crescendo, un grande giardino fiorito.