Perché le morti sul lavoro non siano solo dramma ma un monito
martedì 7 maggio 2024

Sul lavoro si muore per fatalità. Per qualcosa che non era previsto, ovvio. Ma che quasi sempre non era certo imprevedibile. Per un rischio che andava messo in conto, calcolato e prevenuto, e non lo si è fatto. Non abbastanza, almeno. E si muore perché qualcuno quel lavoro – manuale, sgradevole, faticoso, sporco e in varia misura pericoloso – lo deve fare. Non ci sono e non ci saranno né macchine né intelligenze artificiali che possano sostituire l’uomo in molte attività. E si muore, paradossalmente, per generosità. Perché si è umani. L’empatia e la solidarietà verso il compagno ferito, lo slancio per cercare di soccorrerlo prevalgono su tutto. Anche sulla percezione del pericolo per sé stessi e sul rischio di morire a nostra volta.
Questo e molto altro ci ricorda ancora una volta la tragedia sul lavoro di Casteldaccia. Dove un uomo comunque d’esperienza, a 71 anni, uno dei titolari della piccola azienda Quadrifoglio group srl, si è calato nella rete fognaria su cui stavano lavorando in sei. Senza gli adeguati sistemi di protezione. E dietro di lui, a cercare di aiutarlo, altri 5 operai, l’uno dopo l’altro a loro volta avvelenati dal gas che si era sprigionato in quelle condotte. «È successo qualcosa di imprevisto», dicono i colleghi rimasti illesi. Per tutta la mattinata avevano operato in superficie in quel cantiere «e tutto era normale». Una fatalità, dunque. Ma, appunto, non un rischio imprevedibile, giacché nelle fogne, come anche nelle cisterne, è facile si formino miscele venefiche, come hanno spiegato bene i Vigili del Fuoco intervenuti. E perciò in quel genere di ambienti chiusi si dovrebbe operare solo con maschere anti-gas e rivelatore di sostanze tossiche.

Sarà l’inchiesta della magistratura a individuare eventuali carenze e responsabilità penali per questa tragedia che travolge ben cinque famiglie. E lungi da noi l’idea di colpevolizzare le vittime né per eventuali condotte imprudenti né soprattutto per la generosità con cui hanno tentato di salvarsi l’un l’altro, finendo per condividere una tragica sorte. Ma perché questa morte – anche questa ennesima morte – non sia drammaticamente inutile, occorre ripetersi ancora una volta che prima di tutto servono coscienza e responsabilità. Coscienza dei rischi, che è anche coscienza di sé e dei propri limiti. E responsabilità verso sé stessi e gli altri, per la propria e l’altrui incolumità. Come avevamo già dovuto sottolineare appena un mese fa per la strage nella Centrale idroelettrica di Bargi. Come tre mesi fa per il crollo nel cantiere Esselunga di Firenze.

Le leggi, gli obblighi, i controlli e le sanzioni sono fondamentali: si possono – si devono – implementare e perfezionare con il contributo di tutti gli attori coinvolti. Così come fondamentale è la formazione dei datori e dei lavoratori, oggi obbligatoria sì, ma troppo spesso non mirata o evasa con fastidio dagli uni e dagli altri, come una perdita di tempo o un costo inutile.

A scorrere l’elenco degli appalti vinti, non era certo la prima volta che la società di Partinico effettuava, assieme ad altri lavori stradali e di gestione dei rifiuti anche pericolosi, interventi sulle condotte idrauliche e le fognature. Questa volta avrebbe operato in subappalto ad un’altra azienda privata. E, secondo le ultime testimonianze, il mandato della società appaltante – la municipalizzata Amap – non prevedeva neppure che gli operai scendessero nella vasca sotto terra. Ciò sarebbe avvenuto solo per risolvere un problema: l’ostruzione che impediva alla sonda di spurgare i pozzi e non si sa ancora se la scelta sia stata autorizzata, o meno, dall’appaltante.

Di appalto in subappalto, però, la responsabilità si diluisce in mille rivoli mentre il rischio aumenta e si concentra tutto sull’ultimo gradino della scala: quello di chi lavora con minor margine di guadagno e solitamente più stringenti obblighi temporali. Quegli stessi limiti che impediscono di fermarsi in tempo e pensare: “Non rischio, non scendo là sotto, se non ho preso maschera e rilevatore”. E invece si pensa di farcela. E generosamente poi si cerca di salvare il compagno. E uno dietro l’altro si lasciano vedove e orfani. Sperando, almeno, di non essere morti del tutto invano. Di aver lasciato, quantomeno, un drammatico monito per gli altri lavoratori, per tutti noi. Una memoria, un seme di consapevolezza, che valgono assai più di tanti slogan, troppe volte ripetuti a vuoto.


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