Ci mancano le storie d’Africa, perché ne avremmo bisogno per ridisegnare il mondo (speriamo presto) post pandemia. L’Africa Day, la giornata di ieri dedicata al Continente, ce lo ha ricordato. Questi mesi hanno alzato infatti muri virtuali che vanno abbattuti in fretta nel nostro interesse. Dal punto di vista mediatico partivamo già prima del Covid-19 da una qualità informativa bassa: poche notizie e date male. Uno studio recente di Amref con l’Osservatorio di Pavia confermava che per la maggior parte dei media italiani l’interesse iniziava e finiva in Libia e Nord Africa. E perlopiù le news riguardavano il tema strumentalizzato politicamente dei profughi e migranti. I risultati si sono visti con la campagna d’odio scatenata ad arte dopo la liberazione di Silvia Romano in Somalia, dove all’islamofobia si sono sommati in certi commenti il razzismo e una notevole ignoranza del contesto storico, sociale e geopolitico. Esattamente come scrivere di Europa ignorando la caduta del Muro, la Ue, l’euro e la Brexit. Intollerabile per l’Italia, che ha dimenticato mezzo secolo di storia coloniale e il protettorato in Somalia fino al 1960, senza contare la secolare storia missionaria e 50 anni di progetti di cooperazione.
Tenere l’Africa a distanza dell’opinione pubblica è purtroppo servito a coprire traffici di rifiuti come di armi.
Riavviciniamoci allora, anzitutto per capire che cosa non va. Se la pandemia sta risparmiando l’Africa, età media di 19 anni, per ragioni ancora ignote, forse anche per l’impossibilità di effettuare diagnosi e statistiche, non dimentichiamo le altre pandemie da sempre presenti. La fame, che miete più vittime del Covid-19, e che si aggraverà soprattutto in Africa orientale e nel Corno per i mutamenti climatici che hanno inondato i raccolti, poi distrutti dall’eccezionale sciame di locuste cresciuto nell’acqua delle precipitazioni anomale. Poi le malattie da denutrizione e mancanza di acqua potabile, malaria e dissenteria. E quindi la miseria e le ingiustizie sociali figlie della non istruzione e della corruzione e scarsa propensione al bene comune delle élite. Il lockdownha fatto poi perdere il lavoro a tanti emigrati in giro per il pianeta e quindi ha fatto diminuire le rimesse che per molti Paesi africani rappresentano una cospicua voce nel bilancio interno. E non si è mai fermata la lotta per accaparrarsi le immense risorse minerarie e agricole tra colonizzatori semi-vecchi (francesi e cinesi) e semi-nuovi (russi e arabi) sottraendoli ai legittimi proprietari, i cittadini. Tutto questo lascia presagire una ripresa in grande stile dei flussi migratori sia sulle rotte occidentali, dove è forte la pressione dei gruppi terroristici islamisti in Sahel, come su quelle orientali, dove la decisione dell’Etiopia di chiudere i campi profughi degli eritrei non promette nulla di buono.
Dunque è strategico per i media italiani parlare sempre più e meglio di Africa perché, come ci ha insegnato la pandemia, quello che accade nel globo riguarda tutti. Serve, però, un cambio di narrativa, seguendo i cambiamenti inarrestabili in atto. Anzitutto il processo politico di creazione di uno spazio di libera circolazione di persone, beni e capitali. Il virus lo ha solo rallentato. Né ha fermato la straordinaria opera della società civile organizzata che, con buona pace degli africanisti nostrani da tastiera e di redazione emersi con la vicenda Romano, lavora seriamente da anni con metodi innovativi a progetti in partenariato tra ong europee americane e quelle africane per provare a disegnare un tessuto sociale diverso. Progetti che riguardano l’agricoltura, la salute, i servizi, la manifattura, nei quali Italia è pioniera, per generare occupazione e migliori condizioni di vita nelle aree più arretrate del continente dove nessuno vorrebbe investire. Ma si può aiutare la crescita della democrazia anche sostenendo il giornalismo di qualità.
Con una serie di interviste pubblicate da 'Avvenire' sulle pagine della sezione Agorà nei mesi scorsi abbiamo scoperto diverse voci nuove d’Africa, una generazione di cronisti coraggiosi formati, grazie ai fondi della cooperazione allo sviluppo tedesca o di organizzazioni private, dai migliori giornalisti africani per rafforzare il giornalismo investigativo e di inchiesta. Pur tra molti rischi anche di incolumità sono oggi diversi i reporter abituati a lavorare in network e a pubblicare scomodi articoli multimediali su blog e social per sfuggire alla censura e alla chiusura forzata. La nuova narrazione parte dalle loro storie e può riavvicinarci alla grande sorella sull’altra sponda del Mediterraneo.