La neonata riforma della Curia Romana, rimasta in gestazione per nove anni e data alla luce a sorpresa nel giorno di san Giuseppe, il «padre che sogna», già dal nome vuole avere ben altro respiro di vita rispetto a una mera ristrutturazione burocratica. E questo soprattutto per la prospettiva dalla quale scaturisce e per la centralità che occupa nel 'mezzo del cammin' della Chiesa dal Concilio Vaticano II, un cammino ancora a metà – appunto – dalla sua piena attuazione. Basta infatti leggere il Preambolo del testo per avere presente a quale fondale questa riforma si àncora: 14 delle 31 note si riferiscono alle sessioni, alle costituzioni e ai decreti del Vaticano II, e di queste ben 10 solamente ai capi della Lumen gentium, la Costituzione dogmatica sulla Chiesa, che riguarda la sua natura, apostolica e missionaria, e che – guarda caso – è anche la più citata da papa Francesco nel suo pontificato.
Da qui il senso. La logica. E soprattutto il motore di questa che vuole essere prima di tutto una riforma interiore attraverso la quale solo è possibile fare proprio ciò che Francesco chiama «il paradigma della spiritualità del Concilio» espresso dall’«antica storia del Buon Samaritano », parabola centrale dell’enciclica Fratelli tutti. Una riforma, quindi, che si comprende e può attuarsi interamente nell’orizzonte della missione e della comunione della Chiesa.
È quella conversione missionaria alla quale il Papa ha richiamato fin dall’inizio del suo ministero petrino con l’Evangelii gaudium, nel servizio del primato, della collegialità dei vescovi e della sinodalità, secondo le strade maestre alle quali era risalito il Concilio, indicate come prospettiva per crescere nella fedeltà. Del senso e della logica della riforma della Curia papa Francesco aveva già parlato chiaramente nel discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2016. «Non c’è dubbio che nella Curia il significato della riforma può essere duplice: anzitutto renderla conforme alla Buona Novella, che deve essere proclamata gioiosamente e coraggiosamente a tutti, specialmente ai poveri, agli ultimi e agli scartati, conforme ai segni del nostro tempo e a tutto ciò che di buono l’uomo ha raggiunto, per meglio andare incontro alle esigenze dell’umanità che siamo chiamati a servire. Al tempo stesso si tratta di rendere la Curia più conforme al suo fine, che è quello di collaborare al ministero proprio del Successore di Pietro», e quindi di sostenerlo.
Di conseguenza, se la riforma della Curia romana è «ecclesiologicamente orientata ' in bonum et in servitium', come lo è il servizio del Vescovo di Roma», significativa è anche la ripresa di un’espressione di papa san Gregorio Magno, tratta dalla costituzione Pastor aeternus del Concilio Vaticano I: «Il mio onore è quello della Chiesa universale. Il mio onore è la solida forza dei miei fratelli ». E se la Curia non è un apparato immobile, la riforma è anzitutto segno della vita della Chiesa in cammino, che proprio perché vivente è semper reformanda.
Per papa Francesco è dunque necessario ribadire che la riforma non è fine a sé stessa, non ha un fine di estetica aziendale, né può essere intesa come una sorta di lifting, «trucco per abbellire l’anziano corpo curiale», o di chirurgia plastica. È che la Curia romana può essere tale solo in quanto strumento di servizio per il Successore di Pietro, per aiutarlo nella sua missione e a utilità dei vescovi, delle Conferenze episcopali e di altre istituzioni e comunità nella Chiesa.
Di questa riforma papa Francesco aveva chiaramente delineato i contorni commemorando il 50° di istituzione del Sinodo dei Vescovi, il 17 ottobre 2015, quando aveva indicato la necessità di procedere a una salutare «decentralizzazione», con l’impegno a edificare una Chiesa sinodale, missione cui tutti siamo chiamati. Si tratta quindi di inquadrare la riforma di Praedicate Evangelium in un processo di crescita e soprattutto di conversione, lungo il percorso di quelle dorsali conciliari che dopo l’ultima sessione pubblica del Vaticano II, presieduta da Paolo VI il 7 dicembre 1965, sono spesso rimaste impantanate. E che sono oggi il sogno di un figlio del Concilio.