I poveri angeli dei poveri
sabato 30 settembre 2017

Il dovere verso i prossimi non è confinato soltanto a coloro che vivono accanto a noi. A stabilire un vincolo tra il Samaritano e l’israelita ferito sono gli eventi stessi. Trovandosi in quella situazione, egli ha avuto accesso a una nuova prossimità. Nel nostro mondo sono ben pochi coloro che non possiamo ritenere prossimi a noi
Amartya Sen, L'idea di giustizia


La laicità della Bibbia è qualcosa di molto serio ma sempre più lontano dalla nostra vita di credenti e di "laici"’. L’umanesimo biblico è prima di tutto un discorso sulla vita, su tutta la vita, soprattutto sulla vita umana. La Bibbia ci parla molto di Dio, ma non ci parla soltanto di Dio, perché ci parla soprattutto di noi. Perché, ci dice, che non c’è soltanto Dio nella vita: c’è la vita. Il Dio biblico sa ritrarsi, tacere, per lasciare spazio a noi. Alla nostra libertà e alla nostra responsabilità. Non è un monopolista della nostra vita, non vuole un culto continuo e perpetuo – questo lo cercano e ottengono soltanto gli idoli. Il Dio biblico è un liberatore, non ci libera dagli idoli per asservirci a sé – se lo facesse sarebbe l’idolo perfetto. Attiva processi, non occupa spazi, neanche quelli sacri, che frequenta poco, perché al tempio preferisce la piazza, la casa, la vigna. Ma soprattutto ama guardare quello che accade sotto il sole, seguirci con uno sguardo di speranza nell’esercizio pieno della nostra umanità. Si stupisce quando vede le nostre cattiverie, ma si stupisce ancora di più di fronte alla bellezza delle nostre azioni, davanti allo spettacolo mirabile della solidarietà e della fraternità, soprattutto di quelle solidarietà e fraternità meravigliose che iniziano nel cuore dei più poveri e degli scartati.


«Ebed-Mèlec, l’Etiope, un eunuco che era nella reggia, sentì che Geremia era stato messo nella cisterna... Uscì dalla reggia e disse al re: "O re, mio signore, quegli uomini hanno agito male facendo quanto hanno fatto al profeta Geremia, gettandolo nella cisterna. Egli morirà di fame là dentro, perché non c’è più pane nella città". Allora il re diede quest’ordine a Ebed-Mèlec, l’Etiope: "Prendi con te tre uomini di qui e tira su il profeta Geremia dalla cisterna prima che muoia"» (Geremia 38,7-10). Fu un eunuco, un etiope – uno scartato, uno straniero – a salvare Geremia dal fango e dalla morte. Non sappiamo molto di questo salvatore. Sappiamo però che gli eunuchi erano numerosi nell’antichità, in Oriente, nella Persia e poi in tutto il bacino del Mediterraneo, Roma inclusa. Erano schiavi particolarmente richiesti e costosi nei mercati, perché potevano svolgere ruoli speciali e delicati (custodire le donne degli harem, ad esempio). Molti erano castrati prima della pubertà, e finivano per assumere una voce e atteggiamenti femminili. Erano in genere utilizzati per i servizi delle corti e dei templi. Forme simili agli antichi eunuchi sono rimaste fino a tempi recenti (si pensi al loro uso in Europa nei cori sacri, fino agli inizi del XX secolo) – poche settimane fa ne ho visti alcuni in India (gli Hijras) chiedere l’elemosina ai semafori: ho rivisto in loro gli eunuchi della Bibbia, la loro tristissima condizione di vittime, e sono rimasto senza parole per lo stupore e per il dolore.

In questo episodio del libro di Geremia colpisce la descrizione che Baruc fa dell’azione dell’eunuco, delicata e piena di attenzione ai particolari: «Ebed-Mèlec prese con sé gli uomini, andò nella reggia, nel guardaroba del magazzino e, presi di là pezzi di vestiti logori, li gettò a Geremia nella cisterna con delle corde. Ebed-Mèlec, l’Etiope, disse a Geremia: "Su, mettiti questi pezzi di vestiti logori sotto le ascelle e poi, sotto, metti le corde". Geremia fece così» (38,11-12). Un dettaglio che potrebbe sembrare insignificante, e che invece esprime una splendida umanità di chi riesce a cogliere un valore in quella ferita, in quell’uomo mutilato, frequentatore di donne, che da esse aveva assunto l’arte della cura, che dalla sua sofferenza aveva appreso una competenza sulla sofferenza del corpo degli altri. Ancora una volta, la salvezza di un profeta giunge da uno scartato, da un maledetto, da uno straniero, da una vittima. Ma capace, perché educato e reso mite allo spirito dal grande dolore, di riconoscere nel frastuono generale una voce diversa, e poi agire e operare per un riscatto.

Non sono i faraoni, i re, i potenti, i grandi, i ricchi a salvare i poveri. Ieri e oggi la prima salvezza delle vittime arriva da altre vittime, per quella solidarietà del dolore che, quando scatta, opera autentici miracoli, e trasforma le carceri e persino i lager in eden della fraternità. In quella confusione e disperazione generale in una Gerusalemme dove ciascuno cercava di salvare la propria vita, un uomo castrato trasforma quella reggia inquinata da cortigiani e politici corrotti in un paradiso di umanità. Quella vittima riesce a vedere un’altra vittima, il profeta, e trova le risorse per agire, cercando nel caos di una corte allo sbaraglio anche dei panni da mettere sotto le ascelle, per non ferirle.

Forse quell’etiope conosceva già Geremia, forse no. Siamo ignoranti su questo particolare del racconto, ma questa ignoranza ci ricorda qualcosa di molto importante: la prossimità non è l’amicizia. Non c’è bisogno di conoscere personalmente qualcuno per sentirmi suo prossimo. Quel samaritano del vangelo di Luca, anch’egli forestiero come l’etiope di Geremia, non conosceva per nome l’uomo aggredito dai briganti, ma visse quella prossimità fraterna che non ha bisogno di conoscere nome, documenti, permesso di soggiorno; non sapeva né volle sapere se quell’uomo si trovava sulla strada perché fuggiva da un conflitto, se era innocente o colpevole, o se era "semplicemente" un migrante economico. Era un uomo, era una vittima. L’amicizia deve conoscere il nome dell’altro, la fraternità no; l’amicizia ha bisogno di frequentazione, di contatti, di intimità; la fraternità no. L’uomo lungo la strada per Gerico e Geremia, erano uomini, ed erano vittime. Non c’è bisogno d’altro per fermarci di fronte a un ferito, soccorrerlo, portarlo in una locanda, prenderci cura di lui, lasciare il denaro all’albergatore. Il Samaritano e l’etiope seppero essere prossimi senza essere vicini – per geografia, clan, condizione sociale, etnia, per religione. La prossimità senza la necessità della vicinanza è una delle più grandi conquiste morali dell’umanità, che ogni giorno viene uccisa, che ogni giorno risorge. Nelle nostre periferie, nei campi di prima accoglienza, dove – accanto ai molti Sedecìa e ruffiani funzionari di corte – incontriamo ancora tanti etiopi con occhi capaci di vedere altre vittime, di riconoscerle perché hanno il loro stesso odore: l’odore umano, il più buon odore della terra; che cercano i panni negli armadi per estrarre dal fango uomini e donne come loro.

Nel tempo delle rovine e delle deportazioni, nel grande dolore di quelle violenze estreme, rinascono anche brani di prossimità e, qualche volta, di fraternità. Ma per trovarla dobbiamo cercarla tra le vittime e tra gli scartati, che qualche volta hanno salvato in se stessi, custodita dal dolore, la capacità di sentire nelle viscere il dolore degli altri, e poi di agire. La prima povertà, immensa povertà, che spesso generano il potere e le ricchezze, è l’atrofizzazione di quel muscolo del cuore che chiamiamo misericordia, che prima ci impedisce di vedere le vittime, poi di sentirle veramente fratelli e sorelle, e infine di agire. E quando nella vita umana si atrofizza questo muscolo morale, torniamo a Caino, anche quando viviamo comodi e sazi in corti circondati da nuovi servi ed eunuchi. Nel nostro mondo c’è una crescente povertà di questa umanità integrale, che purtroppo nessun indicatore di benessere misura, perché non vuol misurare; e così sprofondiamo in una crescente disumanizzazione, magari nei fanghi diversi delle terme e delle sale massaggi; e magari ci convinciamo pure che i poveri non ci siano più solo perché ci siamo talmente impoveriti nell’anima per poterli ancora vedere, ascoltare, salvare dal fango.

Quell’etiope evirato conteneva in sé tutta l’umanità presente in quella reggia decaduta e corrotta. E così salvò un profeta, e in lui continua a salvarci quando, grazie alla Bibbia, lo scopriamo e lo rincontriamo anche oggi, e lo ringraziamo. Quell’eunuco vide e salvò il profeta perché era rimasto un uomo intero, integro nell’anima anche se mutilato nel corpo. Con le mutilazioni del corpo si può restare interamente e autenticamente umani; sono le mutilazioni e auto-mutilazione dell’anima quelle più gravi, perché la prima parte che viene asportata è proprio la capacità spirituale di vederci amputati. Geremia profetizzò una benedizione per l’etiope Ebed-Mèlec, disse per lui parole di salvezza: «A Geremia era stata rivolta questa parola del Signore: va’ a dire a Ebed-Mèlec, l’etiope: "Così dice il Signore: Ecco, io pongo in atto le mie parole contro questa città... Ma io ti libererò in quel giorno e non sarai consegnato in mano agli uomini che tu temi. Poiché, certo, io ti salverò; non cadrai di spada, ma ti sarà conservata la vita come tuo bottino, perché hai avuto fiducia in me"» (39,15-18). È questa una forma sublime di reciprocità, dove le parole di benedizione e di salvezza di un profeta diventano risposta a una liberazione dal fango.

Un altro etiope, in un altro giorno, mentre leggeva un altro profeta, fece un altro incontro. E fu il primo non giudeo a essere battezzato dagli apostoli: «Un angelo del Signore parlò a Filippo e disse: "Àlzati e va’ verso il mezzogiorno, sulla strada che scende da Gerusalemme a Gaza; essa è deserta". Egli si alzò e si mise in cammino, quand’ecco un Etìope, eunuco (...) stava ritornando, seduto sul suo carro, e leggeva il profeta Isaia» Atti 8,26-28). Quel primo fu ancora un ultimo, un altro etiope, un altro eunuco, che l’apostolo incontrò in seguito a una teofania, a una parola di un angelo. Tutte le teofanie nelle Bibbia sono bellissime, ma splendidi sono i racconti degli angeli che diventano amici dei poveri: quello che apparve ad Agar, la schiava cacciata nel deserto dalla padrona gelosa, quello che fece di un eunuco straniero il segno di una salvezza finalmente universale. Non sappiamo se Luca volle narrarci il battesimo di quell’etiope anche per ricordare l’altro lontano etiope salvatore del profeta. Ma possiamo pensarlo e sperarlo, non sarebbe estraneo in una Bibbia piena di improbabili reciprocità e fraternità nello spazio e nel tempo. Ma possiamo e vogliamo pensare che dopo aver ascoltato le parole di Geremia, anche quel primo eunuco etiope, «pieno di gioia, proseguì per la sua strada» (Atti 8,28).

l.bruni@lumsa.it

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