Vendetta. Giustizia. Verità. Soddisfazione. Sono alcune tra le parole lette o ascoltate a primissimo commento dell’operazione di polizia che ha portato all’arresto, in Francia, di alcune persone condannate per gravi delitti durante quelli che furono chiamati gli "anni di piombo".
No. Non si può liquidare come vendetta la rimozione di un ostacolo all’esecuzione di condanne penali come queste. Ed è vero che circa il giudizio di colpevolezza con cui si è conclusa qualcuna di tali sentenze si possono nutrire legittimi dubbi, tanto sotto il profilo dei fondamenti "in fatto" quanto sotto quello di certi aspetti o momenti della genesi processuale; ma è altrettanto vero che non sono mancati gli strumenti per ripararvi; e, soprattutto, è falsa l’accusa che quelle condanne siano state dovute a repressione del dissenso politico, trattandosi comunque di terribili fatti di sangue; così come non è vero che agli imputati sia stata addirittura negata la possibilità di difendersi.
Non vendetta, dunque, ma giustizia. O meglio, un passo verso la risposta, seppur tardiva, a un’istanza di giustizia. Non è ancora l’estradizione, giacché in Francia come in Italia esiste al riguardo una specifica, opportunissima, "garanzia giurisdizionale". Dev’essere insomma la magistratura a vagliare sotto ogni aspetto la legittimità e la correttezza delle relative richieste; e un suo "no" blocca ogni possibile, diversa volontà dell’Esecutivo. Ma il segnale di una svolta c’è, quantomeno nell’atteggiamento di fondo delle istituzioni governative transalpine, fino al Capo dello Stato.
Verità è la terza delle parole evocate; ed esprime l’oggetto di una speranza. Senza troppe illusioni. Non è facile prevedere che quest’estradizione, se e quando ci sarà, possa davvero contribuire a sollevare, a distanza di così tanti anni, certi veli che ancora avvolgono, se non il "come", il "perché" di quegli orrori. Ad avere il diritto di chiederlo, però, non sono soltanto i familiari delle vittime, ma l’intera collettività.
L’ultima parola – soddisfazione – è forse la più problematica, al di là delle apparenze. Ha a sua volta un senso, sulla bocca dei responsabili del dialogo, con le massime autorità francesi, che ha avuto questo sbocco. Più ancora possono sentirsi soddisfatti coloro i quali, anche e soprattutto in ruoli meno appariscenti, hanno tessuto per anni una preziosa tela di cooperazione diplomatica e giudiziaria. Ma colpisce il diverso accento usato, ad esempio, da Mario Calabresi, il giornalista figlio del commissario trucidato nel 1972: «Oggi è stato ristabilito un principio fondamentale: non devono esistere zone franche per chi ha ucciso. La giustizia è stata finalmente rispettata. Ma non riesco a provare soddisfazione nel vedere una persona vecchia e malata in carcere dopo così tanto tempo».
È un’affermazione nobilissima, tanto più perché espressiva di un idem sentire con la propria madre, Gemma. Non smentisce il netto rifiuto dell’acquiescenza a un’impunità troppo facilmente cercata e ottenuta, ma al tempo stesso testimonia della capacità di superare un sentimento di mera ostilità, pur comprensibilissimo e da non imputare a chi vi accede perché colpito direttamente e irrimediabilmente negli affetti e nei legami più stretti e profondi.
Si può esprimere un’altra speranza? Che cioè, una volta compiuto l’iter dell’eventuale estradizione degli arrestati, il nostro diritto penale e penitenziario possa dare concreto riscontro anche istituzionale ad affermazioni come quella? Trovando e creando – se del caso, e ovviamente non soltanto per questo caso – strumenti adatti a non trasformare, appunto, un atto di giustizia in una vendetta di Stato? Nessuno, no, deve forzare una frase sulla giustizia riparativa, pronunciata 'a caldo' dalla ministra Cartabia in risposta a una domanda sul seguito da dare a questi arresti; c’è il tempo per capire se potranno trarsene frutti tangibili e insieme rassicuranti chiunque abbia a cuore l’autentica giustizia. Ma in ogni caso si può esser sicuri che non si ripeterà quella che anche la figlia di un’altra vittima del terrorismo, Benedetta Tobagi, ha definito la «vergognosa passerella mediatica» che accompagnò lo sbarco in Italia di Cesare Battisti, dopo il suo arresto in Sudamerica, pur definito «giusto e sacrosanto».