venerdì 7 giugno 2024
Eyal Levi: «La verità è che siamo tutti traumatizzati. E fare volontariato è un modo per riparare le nostre vite spezzate da questa guerra. Siamo tutti uniti: ebrei laici, ultraortodossi, cristiani»
I volontari con i soldati feriti al reparto riabilitazione dell'ospedale Tel Ha Shomer di Tel Aviv

I volontari con i soldati feriti al reparto riabilitazione dell'ospedale Tel Ha Shomer di Tel Aviv - Archivio

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«Mio padre ha aperto uno dei primi negozi di dischi in Israele. Sono cresciuto con le immagini dei grandi cantanti israeliani che andavano in visita di sostegno nelle basi militari, durante le guerre. Ricordo le immagini di Leonard Cohen, quando venne a cantare per i nostri soldati, durante la Guerra di Kippur. A distanza di cinquanta anni, siamo tornati al punto di prima. È ormai dal 7 ottobre – ci racconta Eyal Levi, noto dj israeliano – che non lavoro, perché non ci sono più festival dopo il massacro di Hamas al Nova. Ma con quello che sta succedendo nel Paese non potevo certo rimanermene con le mani in mano. Mai avrei pensato di ritrovarmi a fare il dj per i soldati. Eppure, quando mi chiamano a fare da volontario, non riesco a dire di no. E ogni volta che mi congedo dalla base militare, i soldati mi abbracciano e ringraziano, quando sono io che dovrei ringraziare loro, per tutto quello che fanno per noi».

Levi, 48 anni, è ormai da tempo esente dal servizio di riserva. Proprietario di uno dei più antichi negozi di dischi del Paese - fondato da suo padre Giora, di cui l’attività conserva ancora il nome - non appena è cominciato il conflitto, come molti altri israeliani over-forty, ha trovato immediatamente in che modo essere utile. Abituato a girare il Paese per suonare a rinomati festival, con un furgone in grado di trasportare tutto l’impianto acustico necessario, viene contattato dall’unità Givati che gli chiede se è disposto a trasportare cibo e materiale che scarseggia all’interno dall’esercito – tra cui, per esempio, caschi protettivi acquistati privatamente dai genitori dei soldati – e a fare da spola tra Tel Aviv e le basi militari, sia a ridosso della Striscia che al Nord, al confine con il Libano di Hezbollah. Man mano si sparge la voce tra amici e negozianti del suo quartiere – quello del Mercato Shuk ha Carmel – e ormai ogni giorno trova fuori dalla porta cibo, vestiti, lettere scritte da compagni di scuola delle sue figlie, con disegni e preghiere per i militari al fronte.

Il dj Eyal Levi

Il dj Eyal Levi - Archivio

La sua fama all’interno dell’esercito diventa tale per cui viene contattato anche per fare quello che gli riesce meglio: scegliere la musica per alleviare lo stato d’animo dei soldati, tutti traumatizzati dall’esperienza della guerra. Ieri è stato contattato anche dall’Ospedale Tel Ha Shomer di Tel Aviv, dal reparto di riabilitazione dedicato ai militari feriti e post-traumatici. Entrati in ospedale, veniamo accolti tra tre infermiere: una musulmana, un’ebrea laica e una ultraortodossa, che ci portano sulla terrazza dove uno studio di architetti ha deciso di rinunciare a un giorno di lavoro per cucinare per i soldati. Ogni giorno una società diversa, invece di andare in ufficio, dedica una giornata per occuparsi del benessere dei militari ricoverati nel centro di riabilitazione. Nella lobby che separa il terrazzo dalle loro camere, un gruppo di parrucchieri si sono offerti volontari per dare una “rinfrescata” a capo e volto, spesso gravemente ferito, come i corpi martoriati dei soldati in cura. Tra di loro ci sono ebrei, cristiani, ultraortodossi: «Tutte le facce di Israele – racconta Levi. – Incredibile come fossimo tutti divisi prima di quel Sabato Nero, mentre ora ci troviamo tutti assieme, uniti da una cosa terribile come la guerra. La verità è che siamo tutti traumatizzati e fare volontariato è diventato l’unico modo per dare un senso alle nostre vite spezzate. Ogni volta che qualcuno mi porta dei pacchi da portare alle basi, comincia anche a raccontarmi la propria storia: del cugino rapito a Gaza, al collega riservista da cinque mesi. Madri che è dal 7 ottobre che crescono i propri figli da sole, mentre i mariti tornano a casa una volta ogni due settimane solo per farsi una doccia, passare una notte su un letto vero, e poi tornare al fronte. Siamo un’intera società traumatizzata, perché questo conflitto è ancora in corso e, soprattutto, non si vede la fine».

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