I sostenitori di Trump esultano - .
L’aveva detto. Aveva detto che si sarebbe comunque proclamato vincitore, quale che fosse l’esito della più costosa, sulfurea e violenta corsa alla Casa Bianca degli ultimi cento anni. Com’è fatto Donald Trump non è un mistero. Lui stesso ha interpretato senza mai indulgere alla modestia decine di personaggi, dall’allievo della Wharton School of Business in Pennsylvania al “wrestler” che va a sfidare il re della categoria Vince McMahon (ma per interposta persona: a battersi furono due campioni scelti dagli sfidanti, e a vincere fu quello di Trump), dal giovane palazzinaro che si fa le ossa nella società di famiglia (l’Elizabeth Trump & Son) al produttore-conduttore del reality televisivo “The Apprentice” (celebre il suo grido di guerra: «You’re fired!», sei licenziato!), dal “cameo” in Celebrity di Woody Allen e Wall Street: Money Never Sleeps di Oliver Stone allo sfacciato elusore fiscale grazie alle spericolate manovre dei suoi commercialisti che gli hanno evitato di versare centinaia di milioni di dollari all’erario corroborando l’immagine vincente dello sfrontato multimiliardario (3.7 miliardi di dollari il suo patrimonio secondo Forbes), fino al vorticoso cambio di casacca nelle sue simpatie politiche: esordisce nel 1987 come supporter di Ronald Reagan, poi passa al Partito della Riforma del miliardario texano Ross Perot, quindi nel 2001 si dichiara democratico, ma sette anni dopo si schiera con lo sfidante di Obama John Mc Cain e si fa registrare come repubblicano per tornare indipendente nel 2011 e di nuovo repubblicano con l’appoggio al mormone Mitt Romney nel 2012, salvo poi dichiarare nel 2015 che il migliore fra i presidenti degli ultimi anni era stato Bill Clinton e subito dopo candidarsi alle primarie del Grand Old Party forte di uno slogan irresistibile che è rimasto fino a oggi, «Make America Great Again».
A chi si domanda come tutto ciò sia stato possibile ricordiamo che Trump ha fatto da tragico maieuta al sordo ribollire dell’inverno dello scontento americano. Privo di mezze misure, spietato come un nababbo del primo Novecento la cui ricchezza smisurata si accompagnava allo spregiudicato sfruttamento di ogni risorsa possibile (naturale, finanziaria, umana), aggressivo e irrispettoso nei confronti delle donne, dei disabili, dei meno fortunati, dei poveri, degli emarginati come di chiunque gli fosse avversario, “The Donald” ha cavalcato la rabbia e la fine dell’American Dream sfiancando il suo destriero, cadendo e risollevandosi, scandendo minacce e proclami degni di un dittatore da operetta («Costruirò un muro al confine messicano e saranno i messicani a pagarlo, e deporterò dieci o venti milioni di immigrati illegali») ma anche carichi di sovversiva seduzione populista («Non so ancora se riconoscerò il risultato elettorale», «Tutti i media complottano contro di me»).
Di lui aveva scritto sul New Yorker Elizabeth Kolbert dopo che un sondaggio Washington Post/Abc effettuato cinque giorni prima delle elezioni del 2016 rivelava che per molti americani Trump era considerato più onesto e meno bugiardo di Hillary Clinton: «La sue bugie hanno la risonanza emotiva della verità».
Armato di questa “Wille zur Macht”, The Donald ha celebrato la propria sconfitta del 2020 con la medesima volontà di potenza con cui ha vellicato e appoggiato l’assalto del 6 gennaio a Capitol Hill, vagheggiando una rivincita che era insieme l’ordalia barbarica di un personaggio refrattario ogni regola e al tempo stesso la rivelazione di una svolta antropologica destinata a dividere e frantumare quel poco che resta dello Stato dell’Unione: un’America ultra liberista, guidata da oligarchie miliardarie e onniscienti, potentemente (verrebbe quasi da dire: “biblicamente”) avversa a ogni cedimento nei confronti dei più deboli, orgogliosamente spogliatasi di quel compassionate conservatism caro a George W.Bush e al Grand Old Party, quando ancora il Gop somigliava al partito che fu di Nixon e di Reagan. Oggi prevale la “Dottrina Musk”, che farisaicamente a proposito di Twitter (da lui ribattezzato “X”) reclama: «Ciascuno deve sentirsi libero di esprimere il proprio pensiero, sempre, comunque e dovunque»; a condizione (ma questo Musk non lo dice) che sia rigorosamente un Trump-pensiero. Proclama che non a caso ha suscitato la pronta lode di un personaggio come Dmitrij Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa e voce fra le più minacciose del cerchio magico di Vladimir Putin.
Oramai il Gop esiste solo sulla carta. Rimodellato dal tallone dominatore di Trump, ha lasciato sul terreno tutti possibili avversari interni del tycoon dal lungo ciuffo ramato, a cominciare da quel Ron DeSantis dal forte accento tradizionalista, che si era illuso di poter guidare un “trumpismo senza Trump”. Errore fatale, che lo ha steso politicamente concedendogli di rimanere nella comoda posizione di governatore della Florida, ma ormai privo di ogni velleità di rivincita presente e futura.
Oggi, a cospetto di quel ring litigioso e violento dove l’unica regola è stata l’assenza di regole, ci troviamo al crepuscolo di quell’idea di democrazia partecipativa che il preambolo della Costituzione americana con il suo “We the People” proclamava orgogliosamente duecentotrentaquattro anni fa, dimentichi del monito del padre del check and balance Montesquieu: «Chiunque abbia potere è portato ad abusarne». Cosa che da Nixon a Trump, per restare nell’ultimo mezzo secolo, è ampiamente avvenuto.
Nei suoi anni d’oro Ronald Reagan era soprannominato “il presidente al Teflon”, in quanto le critiche, anche le più severe, gli scivolavano addosso. Trump ha fatto di più: la miriade di capi d’accusa di cui è costellata la sua figura sembra cosa inesistente, remota, fortuita di fronte all’allure magica del personaggio che si è cucito addosso. Scampato al proiettile di un cecchino, ha subitaneamente adottato la postura da eroe di Jiwo Jima, consegnandosi al mito di una sottoclasse media prevalente bianca (ma non soltanto bianca) che in lui intravede il liberatore dall’angustia sociale e dal fantasma della povertà.
Al punto da perdonarlo quando si è dichiarato ammiratore di Hitler e dei suoi generali, o quando si augurava che qualcuno sparasse ai giornalisti e qualcun altro ammazzasse la figlia esaltata di Dick Cheney, e perfino quando prometteva in caso di vittoria (che dava per scontata, con le buone o con le cattive) di dare un posto di rilievo nel governo al nipote matto dei Kennedy, o preannunciava alle donne americane (un po’ come fanno in Iran i guardiani della Rivoluzione e la Polizia morale con le sventurate che si tolgono il velo) che sarebbe stato lui il loro protettore: al maschio wasp, bianco e poco scolarizzato The Donald piaceva e piace. E piace anche ai latinos, traditi dal massimalismo dem dei vari Bernie Sanders e delle Alexandria Ocasio-Cortez e dagli svarioni che la stessa Kamala ha accumulato nel corso di quattro nebulosi anni di vicepresidenza a fianco di Joe Biden.
Si meritava questo l’America, culla della democrazia liberale? Certamente no. Ma a quanto pare, le urne hanno risposto di sì.