Due mesi dopo aver vinto una battaglia, i Sioux di Standing Rock, in Nord Dakota, hanno perso la guerra. Ieri l’Amministrazione di Donald Trump ha dato il via libera al completamento di Dakota Access, l’oleodotto da quasi 1.900 chilometri capace, a regime, di trasportare fino a 570mila barili di greggio al giorno fino all’Illinois. Barack Obama a dicembre aveva bloccato i lavori (realizzati quasi al 90 per cento) dopo mesi di proteste a tratti tese da parte dei nativi americani e di ambientalisti che denunciavano i rischi di inquinamento delle falde acquifere e dei terreni attraversati dall’oleodotto.
Ma il 24 gennaio scorso, quattro giorni dopo il suo giuramento, il presidente repubblicano ha firmato due ordini esecutivi che spianavano la strada alla realizzazione non solo del Dakota Access, ma anche di un altro oleodotto controverso: il Keystone XL, di cui l’azienda TransCanada ha già chiesto il permesso per la costruzione e che porterà il petrolio estratto dalle sabbie bituminose dell’Alberta, in Canada, fino al golfo del Messico passando per sei Stati americani.
Il via libera finale è stato annunciato ieri dal vicesegretario all’esercito Paul Cramer, dopo che il genio dell’esercito statunitense specializzato in ingegneria ha presentato uno studio di fattibilità che rimuove gli ultimi ostacoli burocratici al progetto. In particolare la Energy Transfer Partners, la principale società appaltatrice, ha ottenuto per 30 anni i diritti di passaggio sotto il lago Oahe, in North Dakota, un riserva parte del fiume Missouri considerata sacra dai nativi, che attingono alle sue acque per sopravvivere. Le proteste dei Sioux avevano attirato migliaia di persone sulle pianure del Dakota, tra cui politici e celebrità, molti dei quali avevano fatto notare che Trump era azionista della Energy Transfer Partners. Un suo portavoce ha sostenuto di recente che il capo della Casa Bianca ha liquidato la sua partecipazione nell’azienda, anche se i media americani non hanno ancora potuto confermare la transazione.
Resta intanto in sospeso il fato di un altro decreto del presidente americano, quello che ha sospeso gli ingressi negli Stati Uniti da sette Paesi a maggioranza musulmana (Iran, Iraq, Yemen, Libia, Somalia, Siria e Sudan) oltre a bloccare a tempo indeterminato gli arrivi di profughi dalla Siria. La Corte d’Appello di San Francisco, chiamata a pronunciarsi sulla sospensione del divieto sancita da un giudice federale, si pronuncerà in settimana. Ma i giudici, che in nottata hanno ascoltato telefonicamente i legali delle parti, hanno espresso scetticismo di fronte agli argomenti legali dell’avvocato del dipartimento di Giustizia, August Flentje.
Un risultato che ha suscitato l’ira del presidente. «Se gli Stati Uniti non vinceranno questo caso come ovviamente dovrebbero, non potremo mai avere la tranquillità e la sicurezza di cui abbiamo diritto. Politica!», ha lamentato il tycoon su Twitter, per poi aggiungere che «anche uno studente di liceo non troppo brillante capirebbe che ho ragione» e che «la corte sembra essere molto politicizzata». Flentje aveva difeso il provvedimento di Trump affermando che il presidente ha ampia discrezionalità sull’immigrazione e sulla sicurezza nazionale e che il bando non è diretto contro i musulmani. Se i tre giudici, due nominati da presidenti democratici e uno scelto da George W. Bush, dovessero confermare la sospensione del bando, la Casa Bianca porterà la questione davanti alla Corte Suprema. Il cardinale Sean O’Malley, arcivescovo di Boston, ha ricordato in una lettera a tutte le parrocchie dell’arcidiocesi che «siamo una Chiesa di immigrati» e ha ribadito l’impegno ad accogliere chi fugge da violenza e difficoltà.