Silvia Romano - Ansa
La notizia più bella, una delle poche in questi mesi così difficili e quella che veramente conta, è che Silvia Romano sia stata liberata. Ponendo fine a un rapimento lunghissimo nelle mani di criminali fanatizzati e dissipando le tante voci che si erano susseguite sulla sua sorte, probabilmente sparse ad arte per alzare il prezzo. L’averla riportata a casa è un successo indiscutibile, non solo una gioia per la famiglia che ne aspettava il ritorno. Poi, come sempre avviene in questo Paese dalle polemiche tanto facili e tanto sterili, sono montate le controversie.
La prima, prevedibile, sul pagamento di un riscatto. Che abbiamo sempre pagato, in tutti gli altri casi. E che pagano pressoché tutti gli Stati, a dispetto di quanto vadano affermando. Perché in queste vicende deve valere la regola degli Arcana Imperii, ossia dei segreti dello Stato. Esistono ambiti e situazioni in cui lo Stato deve muoversi con discrezione, senza sbandierare le proprie mosse sulle piazze, reali o, peggio, virtuali. Ma ancora più deprimenti sono stati i commenti di chi ha accusato Silvia di «essersela andata a cercare», andando a fare del volontariato in Africa quanto in Italia tanti hanno bisogno.
Tesi più stupida che altro – e stupisce che in tanti vi siano caduti – perché significa togliere valore alla scelta della cooperazione internazionale che da sempre vede impegnati migliaia di donne e di uomini italiani e che rappresenta uno degli aspetti del nostro Paese di cui andare orgogliosi. Sarebbe quasi come irridere i nostri missionari e chiederne il rientro, dato che potrebbero benissimo aiutare i poveri quaggiù. Senza poi voler sottolineare la dimensione strategica che gioca la cooperazione internazionale, che rappresenta un modo indiretto di promuovere l’immagine e gli interessi di una nazione.
Miliziani di al-Shabaab in Somalia - .
Lo sanno bene i turchi che proprio in Somalia sono sbarcati da anni in forze, riempiendo anche il vuoto da noi lasciato quando la situazione nel Corno d’Africa è precipitata. Non a caso proprio l’intelligence turca ha giocato un ruolo importante nell’aiutarci a liberare Silvia. Un aiuto che difficilmente sarà stato gratuito, non già in termini finanziari, ma di acquisizione di un 'credito' magari da spendere, chissà, in altri quadranti complicati, come quello libico. Ma forse per la Turchia di Erdogan, campione dell’islam politico, è sufficiente il ritorno nell’immagine di questa ragazza convertitasi a questa religione, e avvolta in un hijab dal colore simbolo per i musulmani. Ed è questo, inutile fare finta di nulla, il punto che forse più ha colpito, e sorpreso, l’opinione pubblica. In alcuni casi si è trattato di reazioni penosamente volgari, che neppure meritano di essere ricordate, e che danno sfogo a una islamofobia neppure più celata, come se le nostre forze di sicurezza – prima di salvare un italiano – dovessero interessarsi alle sue convinzioni personali.
In altri di uno stupore in fondo quasi naturale dinanzi a un ragazza che abbraccia la fede dei suoi rapitori, che non vuole sminuire il valore di una scelta personale né interferire con la libertà dell’individuo di credere, non credere e in che cosa credere. Ed è probabilmente inutile ricorrere a facili spiegazioni psicologiche, come l’abusata “sindrome di Stoccolma”, o immaginare una forzatura in questa scelta. I movimenti radicali islamici hanno una propensione al proselitismo molto forte e persone che si dedicano completamente alla da’wa, ossia l’appello, per convertire i non musulmani.
Frequentando il Medio Oriente da diversi decenni, e in particolare alcune delle sue zone di guerra, mi sono ben note questi meccanismi invasivi di propaganda religiosa. Che non sempre sono pacifici, come testimoniato da migliaia di prigionieri o profughi appartenenti alle minoranze religiose. Gli Shabaab, da questo punto di vista, godono di una pessima, meritata, reputazione: bande di fanatici che mischiano criminalità organizzata alla violenza religiosa, i quali spesso usano la prevaricazione sui non musulmani o su chi reputano essere un «cattivo musulmano».
E che adottano forme di pressione, fisica e psicologica, per indurre ad abbracciare la loro religione. Anche se l’islam vieta espressamente le conversioni forzate. Rispetto quindi per Silvia che ha scelto di diventare Aisha, dal nome della moglie prediletta dal Profeta, amata dai sunniti e detestata dagli sciiti. Fortunatamente, a differenza di quanto avviene in tante parti del mondo musulmano, chi sceglie da noi di abbracciare un’altra religione non deve fuggire o nascondersi come fanno tanti musulmani che hanno abbracciato il cristianesimo.