giovedì 20 marzo 2025
Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar hanno ormai completato la loro trasformazione (grazie alla nuova amministrazione Usa): da Kiev a Gaza, passando per Kabul, la diplomazia ormai passa da qui
Un incontro tra Mohammed bin Salman e Volodymyr Zelensky, un anno fa a Riad

Un incontro tra Mohammed bin Salman e Volodymyr Zelensky, un anno fa a Riad - Ansa

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Doha, Riad, Gedda, Dubai. I riflettori della mediazione si accendono ormai più sul palcoscenico del Golfo che nella tradizionale Svizzera. La scelta dell'Amministrazione Trump dell'Arabia Saudita come sede per i colloqui sulla guerra in Ucraina (lunedì torneranno a incontrarsi a Gedda le delegazioni americana e russa) sottolinea come il regno si sia riabilitato diplomaticamente dallo stato di paria – o quasi – in cui si era messo nel 2018 dopo l'omicidio del giornalista saudita Jamal Khashoggi. L'ombra che aveva allora offuscato il Paese e il suo leader de facto, il principe ereditario Mohammed bin Salman (MbS), sembra essersi oggi dissipata, e ciò malgrado le apprensioni occasionalmente sollevate sui media internazionali circa le frequenti esecuzioni capitali e la situazione dei diritti umani nel Paese. Di sicuro, i sauditi non hanno intenzione di frenare la loro ambizione di diventare un attore essenziale nella diplomazia globale. Lo stesso vale ovviamente per gli emiri rivali del Qatar e degli Emirati Arabi Uniti. Non sempre con risultati positivi, in verità. È stato grazie a MbS che l'allora presidente siriano Bashar al-Assad ha potuto posare nuovamente per i fotografi, nel maggio 2023, insieme agli altri capi di Stato arabi, mettendo la parola fine all'isolamento del suo Paese all'interno della Lega araba. Infruttuosi si sono rivelati, lo scorso agosto, anche i negoziati di pace di Ginevra sul Sudan, fortemente voluti dall’Arabia Saudita, già fautori dell'intesa inter-sudanese firmata a Gedda nell'anno precedente. Da parte sua, il Qatar si conferma uno snodo cruciale nella gestione del conflitto che attanaglia Gaza da un anno e mezzo. Doha sembra essere ormai diventata un crocevia obbligatorio per i negoziatori internazionali che tentano di favorire il rilascio degli ostaggi e l'implementazione di una tregua. È in questa capitale, inoltre, che si è tenuto lo scorso luglio il terzo round dei colloqui sull’Afghanistan promossi dalle Nazioni Unite in presenza – questa la novità – dei taleban accanto ai rappresentanti di oltre venti Paesi. Ma anche in questo caso si è trattato di tanto fumo e niente arrosto. L’incontro è finito con un nulla di fatto, dato che né i taleban hanno ottenuto la revoca delle sanzioni internazionali, né l’Onu ha ottenuto la mitigazione dei decreti contro i diritti delle donne nel Paese asiatico. A Doha si sono visti l’altro giorno, dopo anni di silenzio, i presidenti di Congo e Ruanda di fatto in guerra. Il Qatar era stato designato nel 2022 dall'amministrazione Biden come “Major Non-Nato Ally” e “partner affidabile e capace” al centro di molti interessi vitali per gli Usa. Uno status, questo, che ha migliorato sì la postura strategica del piccolo emirato, ma che oggi potrebbe essere messo in discussione dalla nuova Amministrazione. Sia i sauditi che i qatarioti puntano a mostrarsi insostituibili per Washington, ma entrambi adottano nel contempo una strategia di "hedging" (copertura, ndr) stringendo relazioni strette con Paesi considerati rivali degli Stati Uniti: i primi con Cina e Russia, i secondi con l'Iran. Fino a che punto Trump sia disposto a tollerare un tale equilibrismo è imprevedibile. Il tycoon intende, come durante il suo primo mandato, “mungere” le vacche grasse del Golfo con investimenti miliardari negli Usa e ricatti sulla loro sicurezza. Ogni gesto americano che valorizzi i monarchi arabi avrà il suo prezzo, specie se si tratta del primo viaggio all'estero del presidente. Un “buon inizio” sarebbe un accordo di pace tra sauditi e Israele, da annoverare nel suo curriculum.

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