Paul Rusesabagina, oggi è esule in Europa, immortalato nel film «Hotel Ruanda»: hanno tentato strumentalmente di infangarne la memoria per ragioni politiche, ma è passato alla storia come lo «Schindler d’Africa», per essersi messo in gioco durante il genocidio – lui, hutu – in difesa di centinaia e centinaia di tutsi, accolti e salvati clandestinamente nell’albergo dove prestava servizio come assistente del direttore generale. Pierantonio Costa, console onorario in Ruanda dal 1988 al 2003, paragonato a Giorgio Perlasca (che si adoperò per sottrarre alla Shoa ben 5.000 ebrei) per aver salvato, a sua volta, duemila persone.
Nascosti in parrocchia
E poi padre Mario Falconi, barnabita bergamasco che, durante il genocidio, ha portato in salvo più di tremila tutsi, aprendo loro le porte della sua parrocchia a Muhura, come ha ricordato di recente Avvenire. Sono solo tre dei nomi più noti. Ma è ben più lunga la schiera dei coraggiosi che, lungo i cento terribili giorni del massacro, mentre gli estremisti hutu squartavano i nemici a colpi di machete, si sono adoperati per nascondere chi era in pericolo e salvare vite. Ricordate Romeo Dallaire? Il generale canadese salì alla ribalta per aver denunciato il massacro in corso con il famoso «genocide fax», inviato all’Onu ma purtroppo rimasto lettera morta. Molto meno noto, ma degna di essere ricordato, un altro militare, il senegalese Mbaye Diagne, in forza alla Minuar. Nascondendoli nel suo fuoristrada con le insegne dell’Onu, il coraggioso ufficiale riuscì a sottrarre a morte certa ben 600 tutsi. Il governo ruandese lo ha riconosciuto tra i Giusti.
I tanti religiosi
Insigniti dello stesso titolo sono stati anche tre religiosi rogazionisti italiani, i padri Vito Misuracca, Eros Borile e Vito Giorgio, cui si deve il salvataggio di centinaia di bambini dell’orfanotrofio di Nyanza dalla furia dei miliziani. Molto meno noto, da noi, il nome di un altro missionario, membro della Chiesa avventista del settimo giorno, lo statunitense Carl Wilkens, in Ruanda come direttore di un organismo di cooperazione: grazie alla sua azione coraggiosa molte vite umane sono state risparmiate. Anche padre André Sibomana - mentre la famigerata Radio Télévision Libre des Mille Collines incitava gli hutu a uccidere gli «scarafaggi» tutsi – si è distinto per il suo coraggio. Redattore capo del giornale Kinyamateka, storica testata cattolica, si impose come una delle poche voci indipendenti e controcorrente; rientrò al giornale dopo la fine della guerra, continuando a operare per la riconciliazione, fino alla morte. Due anni prima dello scoppio del genocidio, nel marzo 1992, Antonia Locatelli, missionaria laica in Ruanda dal 1972, aveva pagato con la vita la sua denuncia. Mentre era testimone di uno dei massacri preparatori del genocidio, nell’intento di salvare 300 tutsi, aveva chiamato l’ambasciata del Belgio e la Bbc, lanciando l’allarme. Il giorno dopo fu uccisa da un gruppo di miliziani. Jacqueline Mukansonera ha intitolato la sua autobiografia
Uccisa perché ospito i fuggiaschi
«La morte non mi ha voluta»: se è sopravvissuta al genocidio, è grazie al coraggio di Jacqueline Mukansonera, di etnia hutu, che nel 1994, correndo enormi rischi, per 11 giorni nascose Yolande nella sua cucina. Anche Zura Karuhimbi è hutu: permettendo loro di rifugiarsi nella sua casa di Gitarama, ha dato un futuro a oltre 100 tutsi che altrimenti sarebbe stati massacrati. Commovente pure la storia di Félicité Niyitegeka, uccisa il 21 aprile 1994 per aver dato ospitalità ai tutsi in fuga. Accanto a tanti cristiani e cristiane morti come martiri per aver condiviso fino all’ultimo la sorte dei loro amici di etnia diversa, anche alcuni hutu musulmani - come ha scritto Françoise Kankindi, presidente di Bene Rwanda, sul sito di Gariwo – «si rifiutarono di collaborare dicendo di dare più importanza alla loro religione che alla loro etnia. Non salvarono soltanto la vita dei tutsi musulmani, ma anche quella di migliaia di tutsi cristiani».