Profughi del Nagorno - attivisti umanitari locali
Il prossimo Natale le campane di molte chiese del Nagorno-Karabakh non suoneranno più. Da due giorni e due notti arrivano ai posti di blocco i profughi della minoranza cristiana armena definitivamente scacciata. Discendono dai passi montani a centinaia, mentre i soldati azeri diffondono sui canali Telegram le immagini del loro ingresso in alcuni villaggi sperduti: sparano raffiche di mitra contro le case abbandonate dai cristiani armeni.
Un uomo spera di trovare suo figlio, un altro cerca l’anziano padre. Perfino il governo di Yerevan pare rassegnato alla progressiva sparizione dell’Artash, com’è chiamata in lingua armena la regione in territorio azero finora abitato dal “piccolo gregge”. Il presidente Pashinian si è detto disponibile ad ospitare fino a 40mila famiglie. Ne erano rimaste 120mila di persone, dalle oltre 300 mila ch’erano fino a pochi anni fa. L'offerta del governo di Yerevan ha un significato chiaro: svuotare l'intero Nagorno, lasciando che i cristiani lo abbandonino, forse nella speranza di evitare loro una lenta e inesorabile pulizia etnica.
Gayané Khodaveerdi, Segretaria dell’Unione degli Armeni e presidente dell’Armenian General Benevolent Union Milan, esprime ad “Avvenire” la sua profonda preoccupazione: “120.000 armeni dell'Artsakh tra cui 30.000 bambini, 2.000 donne incinte e 20.000 anziani, hanno affrontato per nove mesi la fame, la malnutrizione, l'impossibilità ad aver accesso a qualsiasi assistenza, allo studio o al lavoro”. E ora quelle “stesse forze azere che per nove mesi hanno bloccato l’Artsakh da qualsiasi contatto con il mondo esterno, il 19 settembre 2023 hanno bombardato queste terre. Mi chiedo come la comunità internazionale possa permettere che queste 120.000 anime vengano sradicate dalle proprie terre di origine”.
Impossibile non fare i conti con il passato. Con errori che si ripetono. Per convenienza, più che per distrazione. “Da cittadina europea di origine armena - aggiunge Khodaveerdi - mi domando come l'Europa non sia riuscita ad intervenire per aiutare il nostro popolo, proprio come avvenne nel 1915, quando, nella totale indifferenza della comunità internazionale, un milione e mezzo di armeni subirono un genocidio per opera dell'Impero ottomano”.
Le ricadute interne in Armenia non sono da meno. Continuano le proteste di chi accusa il governo di essersi fidato fin troppo di Mosca, che avrebbe dovuto garantire la protezione della minoranza nel Nagorno e invece non per nove mesi non è riuscita a far riaprire il corridoio di Lachin, sigillato dagli azeri, impedendo l’accesso di viveri, farmaci, carburante e beni di prima necessità. Nove mesi che hanno trascinato la popolazione allo stremo e che dopo la resa delle formazioni separatiste non ha lasciato speranze. A Erevan la polizia ha arrestato questa mattina Andranik Tevanyan, uno dei leader dell'opposizione che promuove le proteste di piazza. Complessivamente 84 manifestanti sono stati arrestati per le contestazioni di questi giorni. Dimostranti antigovernativi sono scesi di nuovo nelle strade della capitale: i partiti di opposizione accusano il premier Nikol Pashinyan di troppe concessioni a Baku e ne hanno chiesto le dimissioni; e hanno anche annunciato l'intenzione di avviare l'impeachment in parlamento.
I poliziotti di mezza età mandati a calmare la folla armati della cravatta scura e dai modi bonari, siedono annoiati sulle panchine intorno al palazzo del governo. Il lavoro da duri lo lasciano fare ai giovani dei baschi rossi, il reparto speciale che sfida i manifestanti mostrando bicipiti e muso duro. A poca distanza i nuclei antisommossa usano gli scudi di metallo nella formazione a testuggine. Devono proteggere l’ingresso al palazzo del governo. Se la folla sfondasse le vetrate, si vivrebbe un colpo di stato che neanche l’opposizione mostra di volere.
Da Baku arriva la conferma che i peacekeeper russi uccisi «per errore» dagli azeri sono stati 6. In una telefonata al suo omologo azero Ilham Aliyev, il presidente russo Vladimir Putin ha chiesto che Baku garantisca «i diritti e la sicurezza degli armeni del Nagorno-Karabakh». Nelle stesse ore centinaia di cristiani armeni abbandonavano per sempre le proprie case. Il presidente Nikol Pashinian in un discorso televisivo ha tentato di riconquistare il consenso perduto in questi giorni per non avere mosso un dito in favore della minoranza armena nel Nagorno-Karabakh che è passata dal sogno indipendentista all’incubo dei soldati azeri sotto casa. «Non penso che si debba chiudere un occhio di fronte al fallimento del contingente nel Nagorno-Karabakh», ha detto Pashinian alludendo al presunto doppio gioco di Mosca. «Se i peacekeeper russi hanno potuto raggiungere un accordo per il cessate il fuoco – ha chiesto Pashinian –, perché non lo hanno fatto prima che l’Azerbaigian attaccasse il Nagorno-Karabakh?».
Doveva essere un giorno di festa, celebrando l’indipendenza dal giogo della Mosca sovietica e invece Erevan si ritrova ancora a domandarsi se manifestare in difesa del Nagorno-Karabakh non faccia proprio il gioco di Mosca, accusata di aver tradito l’Armenia e di volere ora destabilizzare il Paese per poi tentare di amministrare il caos. Pashinian sa di giocarsi non solo la fortuna politica, ma anche l’assetto delle istituzioni. Perché se la folla provasse davvero a sfondare il cordone di polizia che protegge l’ingresso del Palazzo del governo, le conseguenze sarebbero imprevedibili, anche perché nessuno sa esattamente da che parte starebbe l’esercito. La polizia ne ha approfittato per regolare i conti del giorno prima, quando gli scontri sono cresciuti di intensità mostrando un crescente coordinamento tra i gruppi più determinati. Ieri le camionette con i lampeggianti sempre accesi sono state riempite presto di oppositori trascinati via con la forza.
Il governo italiano si è offerto di mediare, ospitando a Roma i round negoziali tra i separatisti del Nagorno e il governo azero. Ma in Armenia, dove c’è grande stima per la rappresentanza diplomatica italiana e per quella vaticana, non tutti sembrano fidarsi dei politici italiani. E così anche nel passaparola dei manifestanti viene fatto circolare un comunicato stampa in lingua italiana dell’8 giugno scorso. C’è scritto: «Inizialmente legata ai settori energetici, la collaborazione tra Italia e Azerbaigian si estende anche alla Difesa grazie al prezioso contributo offerto dal gruppo di lavoro del Ministero della Difesa italiano». Era una nota di Leonardo, il gruppo italiano della Difesa che ha nel governo il suo maggiore azionista. Nell’enclave dove i separatisti sono stati sbaragliati dall’esercito azero, il cessate il fuoco sta reggendo, nonostante qualche colpo partito di tanto in tanto.
Le autorità di Stepanakert, capitale dell'autoproclamata Repubblica dell'Artsakh, hanno dichiarato di aver accettato il cessate il fuoco proposto dal contingente russo di mantenimento della pace nella regione.
Ieri dopo tre ore i colloqui sono stati rimandati. Tra i nodi da sciogliere, Baku chiede la consegna dei principali capi separatisti perché vengano processati e imprigionati mentre offre l’amnistia ai combattenti che consegneranno le armi. Ma pochi si fidano e temono di venire arrestati o di subire rappresaglie. Perciò potrebbero camuffarsi tra i profughi. Almeno 7mila persone in due giorni hanno lasciato la regione. Altri se ne aggiungeranno, riducendo al minimo storico la presenza degli armeni del Nagorno. Proprio quello che l’Azerbaigian intendeva ottenere.