Aung San Suu Kyi all'Aja (Ansa) - Ansa
La Corte internazionale di giustizia dell'Aja si è dichiarata competente a pronunciarsi sull'accusa di "genocidio" contro la minoranza musulmana dei Rohingya, a carico dell'esercito del Myanmar. Lo ha annunciato Abdulqawi Ahmed Yusuf, giudice della Corte delle Nazioni Unite con sede in Olanda. La Corte ha anche ordinato al Myanmar di adottare "tutte le misure in suo potere" per prevenire il presunto genocidio contro i musulmani Rohingya. I giudici hanno inoltre concesso una serie di misure di emergenza richieste ai sensi della Convenzione sul genocidio del 1948.
Parere diametralmente opposto a quello sospenuto dalla leader de facto del Paese nella sua arringa il mese scorso all'Aja. Il Myanmar non va processato, né la sua leader, Aung San Suu Kyi, va chiamata in causa per crimini contro l'umanità, altrimenti il conflitto che è sfociato nel massacro dei Rohingya riprenderà. È l'insolita tesi - a parti rovesciate la stessa leader birmana una volta l'avrebbe indicata come una velata minaccia autoritaria - che la Nobel per la Pace ha sostenuto il 18 dicembre scorso di fronte alla Corte internazionale di giustizia nella sua replica alle accuse pronunciate dai legali del Gambia, che hanno trascinato il Paese asiatico in aula accusandolo di aver compiuto un "genocidio" della minoranza Rohingya.
Elegante, indossando il tradizionale abito birmano e l'intreccio di fiori nei capelli che l'ha fatta amare in tutto il mondo e perfino comitato di Oslo, la donna che una volta faceva tremare il regime militare birmano ha sfoderato tutta la sua glacialità prima per ridurre il massacro di musulmani a conseguenza di un "conflitto armato interno" e poi per avvertire che lo stesso "caso" portato in aula dal Paese africano potrebbe "minare la riconciliazione" e che "è importante evitare che il conflitto riprenda". "Prego affinché la decisione che prenderete con saggezza e senso della giustizia – ha detto rivolta ai giudici - ci aiuti a creare unità nella diversità". Vanno evitati, ha aggiunto in sei minuti di dichiarazione, "i passi che generano sospetti, sollevano dubbi e risentimento tra le comunità che hanno appena cominciato a mettere basi ancora fragili di riconciliazione".
Proteste contro il regime militare del Myanmar (Ansa) - Ansa
La repressione nello Stato di Rakhine, che l'ex icona dei diritti umani aveva giustificato con la necessità di combattere i "terroristi", spinse nel 2017 circa 740.000 Rohingya a fuggire in Bangladesh. I legali del Gambia hanno insistito sulla tesi di un genocidio condotto attraverso operazioni di pulizia etnica. "Il vostro silenzio, signora rappresentante (San Suu Kyi si è presentata alla Corte in questa veste, ndr) dice molto più delle vostre parole", ha detto Philippe Sands rivolgendosi alla Nobel della Pace prima della replica di quest'ultima e sottolineando sarcasticamente che "il termine stupro non è mai affiorato sulle sue labbra".
"Bambini picchiati a morte - le ha chiesto retoricamente l'altro legale, Paul Reichler - tolti alle madri e gettati nel fiume: quanti di loro erano terroristi?". Al termine di tre giorni di dibattito toccherà ai giudici prendere una decisione sulla richiesta di misure di emergenza formulata dal Gambia affinché si "scongiuri il rischio di un nuovo genocidio". Per il giudizio finale si dovranno però attendere anni.