«Avevo concelebrato ai funerali del padre non più di due mesi fa. In quell’occasione Shahbaz aveva profetizzato che sarebbe ritornato in quella stessa chiesa per i suoi funerali. Era sotto tiro e lo sapeva, tuttavia aveva da tempo rinunciato a cedere alla paura e alle intimidazioni». Padre Bonnie Mendes, già segretario esecutivo della Commissione nazionale Giustizia e Pace pachistana, è coordinatore regionale di Caritas-Asia. Amico di famiglia di Shahbaz Bhatti e originario dello stesso villaggio, ha condiviso con Avvenire le sue impressioni subito dopo l’assassinio.
Che cosa ricorda con più immediatezza di Shahbaz Bhatti?La sua onestà intellettuale e, negli ultimi tempi, il suo coraggio. Era stato spinto alla guida del ministero da Benazir Bhutto, poco prima del suo assassinio nel dicembre 2007 e confermato successivamente. Non era una carica a cui avesse mai aspirato, ma l’ha accettata con la coscienza che fosse l’unica barriera istituzionale allo strapotere di un certo islamismo e, ancor più, di radicate consuetudini di prevaricazione e sfruttamento. La sua carriera, più che politica, era sempre stata di attivismo per i diritti dei cristiani e di tutte le minoranze. Non ci serviva un martire, ma certamente Shahbaz non sarà dimenticato.
Bhatti ha lottato contro gli abusi della legge antiblasfemia e a favore delle sue vittime, per questo è stato ucciso. Che cosa rende questa legge «inattaccabile»? La sua vaghezza, il crescente radicalismo e gli interessi di pochi. Nel 1992, l’allora arcivescovo di Lahore, monsignor Trindade, definì la legge «la più ingiusta in vigore», pensando alla sua arbitrarietà, alla sua mancanza di vera ragione. Noi, come cristiani, ci siamo sempre opposti alla sua stessa esistenza. Quanta gente è morta per essa: comuni cittadini di questo Paese, attivisti, leader religiosi, politici, perfino un poeta. Il fatto è che la legge, in forme parzialmente diverse, è sempre esistita, fino dai tempi della colonizzazione britannica, ma per lunghi periodi non fu nemmeno applicata.
Che cosa l’ha resa uno strumento di persecuzione?Quando il generale Zia Ul Haq prese il potere, esautorando il presidente Zulfikar Ali Bhutto, nel 1985 decise che l’islamizzazione fosse la carta su cui puntare per garantirgli il potere. Per questo, perseguì l’introduzione di una serie di provvedimenti di ispirazione religiosa che all’inizio passarono quasi inosservati tra le pieghe della legge marziale, come pure l’impossibilità di fatto del Parlamento di abrogarle. Oggi la situazione conseguente all’uso di queste leggi, che non riguardano solo i reati di blasfemia, ma molti aspetti della vita è preoccupante. Non solo per le minoranze, perché in gioco è l’esistenza stessa del Pakistan. Oggi è la forza di pochi che sta distruggendo il paese. Guardiamo al Punjab, dove si assiste a un continuo uso strumentale della legge. Qui i pregiudizi sono sempre stati molto alti e nemmeno collegati a ragioni di rivalità economica. Una tradizione aberrante di dominio, che usa ora la carta religiosa.
Come si presenta la situazione per i cristiani dopo l’uccisione del ministro Bhatti?I rischi sono quelli di Shahbaz, ma le modalità in cui potremo agire dovranno essere più prudenti. Insieme, la sua morte è una chiamata ad agire. Ad esempio occorre dove possibile che spazi, fondi, idee e gruppi della nostra comunità cattolica siano messi a disposizione di gruppi che possono avere un ruolo nel migliorare il paese. Non penso solo agli adulti, ma ancor più ai giovani e anche a bambini. È nelle nostre scuole, nelle nostre università che nascono i pregiudizi. Occorre anche allearsi, perché noi cristiani, se isolati all’interno e all’esterno del paese, da soli non potremo fare molto.