giovedì 29 giugno 2023
Lo scontro tra la comunità induista dei Maitei, vicina al governo, con quella dei protestanti Kuki, è fuori controllo. Maggio ha segnato cifre impressionanti e sono già 50mila gli sfollati interni
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Dall’inizio di maggio, lo Stato nord-orientale indiano di Manipur è tornato ad essere una polveriera per i cristiani. Complici problemi mai sanati tra le comunità del suo composito orizzonte etnico, le tensioni si sono trasformate in scontri aperti, con uccisioni, devastazioni e roghi che hanno coinvolto, in particolare, la comunità maggioritaria Meitei, di fede indù, e quella Kuki, di religione in prevalenza cristiana (protestante). In tutto a poco più di due mesi dall’anniversario dell’altro massacro di cristiani avvenuto in Orissa nel 2008.

Le due comunità religiose si equivalgono con circa il 41 per cento ciascuna dei quattro milioni di abitanti, ma la prima è favorita dalla politica locale e federale. Pesante il bilancio da ormai oltre un mese: quasi 50mila sfollati in 300 campi profughi ma con una popolazione assai più vasta espulsa dalle proprie case o villaggi, oltre 500 edifici dati alle fiamme e tra queste diverse chiese cristiane, forse 120 morti mediando tra dati e stime non univoci. Nella giornata di domenica, l’arcivescovo Andrew Thazhath di Trichur, presidente della Conferenza episcopale indiana, ha chiesto ai cristiani di pregare per la pace nella tormentata regione.

In quella che è un’India «diversa» per la varietà di condizioni ambientali e di popolazione (ricordiamo che si trova al confine con il Myanmar ma anche con altri Stati o Territori dell’India come Nagaland, Mizoram e Assam che fanno pure parte di un’area inquieta del grande paese asiatico anche per i contenziosi con Cina, Bangladesh e Myanmar) molte testimonianze segnalano come la fase attuale di una lunga storia di contrasti interetnici abbia acquisito dimensioni e connotazioni di persecuzione religiosa.

L’aggressione dei Meitei indù sembra non risparmiare non solo i luoghi di culto e i pastori cristiani della minoranza Kuki, ma anche quelli della loro stessa etnia. Punto di partenza di questa nuova crisi è stata la richiesta di includere i Meitei tra le caste registrate, riconoscimento che porterebbe con sé diversi benefici, inclusa la possibilità di vedersi riconosciuti diritti sulle terre tribali. Una prospettiva a cui si sono opposti i Kuki e altri gruppi che sono in condizioni economiche e sociali più sfavorite e temono espropri a loro danno.

Questo e la mancanza di mediatori o intermediari tra le diverse posizioni hanno riacceso rivendicazioni e violenze. Sono altre 550 i gruppi della società civile e le personalità che in tutto il Paese hanno chiesto la condanna della violenza in corso e al primo ministro Narendra Modi, leader del Bharatiya Janata Party (Bjp), di interrompere il suo «silenzio assordante» sulla situazione. Con quello che l’iniziativa ha definito «il caratteristico modus operandi del Bjp», si cercherebbe di esacerbare «le antiche tensioni tra le comunità per averne vantaggi politici.

Chiaramente il partito sta usando la forza e la coercizione per rafforzare la propria presenza nello Stato, ma pretendendo di essere alleato di entrambe la parti sta solo aggravando le tensioni storiche senza alcuno sforzo finora per favorire il dialogo che porti a una soluzione».

Una soluzione difficile, a partire dal fatto che le principali autorità di governo del Manipur sono associati con il partito che alla guida del governo federale indiano persegue una politica nazionalista e filo-induista, poco incline a prestare orecchio a istanze di minoranze che non siano indù e che non abbiano accolto i programmi di riconversione dalla fede acquisita (islam, cristianesimo o buddismo) all’induismo portati avanti con incentivi o minacce in diverse aree del Paese. I circa 100mila cattolici della locale arcidiocesi di Imphal sono anche in questa occasione insieme vittime, promotori di dialogo e sostegno per altri nell’emergenza.

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