Il presidente siriano Bashar al-Assad, 54 anni - Ansa
Un milione di persone in fuga dai bombardamenti, sei milioni e mezzo di sfollati interni, cinque e mezzo di rifugiati all’estero, una catasta di vittime incolpevoli il cui conto approssimato per difetto sfiora le cinquecentomila. È il tragico traguardo raggiunto da Bashar al-Assad a vent’anni dalla sua ascesa al potere e a dieci dall’inizio delle primavere arabe. Pochi all’epoca avrebbero scommesso su di lui. Il predestinato era Basil, capo della guardia presidenziale e forte di una opportuna preparazione militare. Essere figli di Hafez, il Leone di Damasco, comportava certi doveri, non ultimo quello di usare convenientemente il pugno di ferro, come aveva fatto il padre nel 1982, che gassò, mitragliò e annientò i quindicimila insorti sunniti nella città di Hama, lasciando nei siriani un ricordo incancellabile di cosa fosse capace il clan di alauiti al potere (formalmente sciiti duodecimani, in forte minoranza nel Paese) in tandem con il capillare Mukhabarat – l’onnipotente servizio di informazioni che Hafez aveva spezzettato in quattordici differenti direttorati, in modo che ciascuno spiasse l’altro.
Ma il destino privò Basil del trono che gli era stato riservato. Nel 1994, a soli 31 anni, la sua Mercedes imboccò a velocità elevatissima una rotatoria nei pressi dell’aeroporto di Damasco, si capovolse e l’erede designato – oggi venerato come un martire – morì. C’era per la verità un altro Assad, il fratello Maher, che avrebbe potuto prenderne il posto. Ma era poco duttile e troppo incline alla violenza. Toccava dunque a lui, l’oftalmologo laureatosi in patria con specializzazione a Londra, così lontano dalla politica e dal sangue (in Siria e non soltanto in Siria le due cose si sovrappongono in un abbraccio inestricabile) da progettare una vita appartata con una bella moglie Asma al fianco, lasciando al clan dei parenti l’incombenza faticosa di tenere la briglia del Paese. E invece no. Nell’anno Duemila il padre muore di attacco cardiaco mentre è al telefono con il presidente libanese Lahoud e Bashar – a cui famigli e generali stavano fornendo un’infarinatura delle regole del comando – sale suo malgrado sul trono del Leone, succedendo a un uomo spietato e intelligente come Hafez, che in un trentennio aveva reso la Siria il più pericoloso nemico di Israele e il più munifico sostenitore dei movimenti anti-sionisti come gli Hezbollah libanesi e i palestinesi di Hamas. Ma all’epoca in molte cancellerie si usava considerare Bashar come un bamboccio paracadutato in un ruolo non adatto al suo temperamento, un ragazzone alto due metri che rimaneva in piedi solo grazie al sostegno dei famigli (e di quella first lady dai modi garbati e dallo shopping facile con un passato professionale alla J.P.Morgan che la rivista “Vogue” definì «La Rosa del Deserto » mentre altri meno benevolmente la bollavano come «La donna del macellaio»). Siamo entrati nel decimo anno ormai dai primi vagiti delle primavere arabe, e dei satrapi dell’epoca.
E se escludiamo l’immutabile teocrazia iraniana, solo uno è rimasto al suo posto: lui. Tutti gli altri, da Gheddafi a Saddam Hussein, da Mubarak a Mohammed Morsi, da Ben Alì a Bouteflika sono stati inghiottiti dal tempo e dalla Storia. Lui invece, a vent’anni dal suo insediamento e dopo uno sconvolgimento sociale e umanitario senza precedenti e una guerra che dura da dieci anni, è ancora lì, rigido e impalato sul trono di quella “jumlukiya” – sarcastico ma azzeccatissimo accrocco di due termini, “jumhuriya” (repubblica) e “malikiya” (monarchia) – che non intende mollare e che grazie al fondamentale apporto della Russia e dell’Iran è rimasta in piedi nonostante la guerra civile, nonostante l’urto e le pressioni militari di Francia, Gran Bretagna e soprattutto Turchia, nonostante l’affollato e interessato concorso di tutte le potenze occidentali. E così l’«uomo che vinse due volte» (la prima sul resto del mondo e la seconda sui suoi concittadini) può festeggiare il decennale del suo trono sanguinoso e al tempo stesso inamovibile come la pietra acconciata che tiene insieme le volte della Grande Moschea degli Omayyadi a Damasco. «Se cade Assad – è stato il mantra regionale per un decennio – cade tutto il castello mediorientale ». Non è vero, ma finora ha funzionato. Da Clinton ai Bush, da Obama a Trump, da Chirac a Macron a Erdogan, tutti a turno si sono più o meno scornati con la Siria. E con il suo riluttante presidente, che sembra sempre voler dire: «Io non volevo, ma…».