giovedì 19 settembre 2024
Blocchi ferroviari e stradali in tutto il Paese. E ogni settimana la gente scende in piazza per fermare il piano di una multinazionale nel giacimento più grande d'Europa
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Proseguono in tutta la Serbia, con blocchi ferroviari e stradali, le proteste contro la multinazionale anglo-australiana Rio Tinto che vorrebbe aprire la più grande miniera di litio d’Europa nella valle agricola del fiume Jadar, vicino al confine con la Bosnia. A Belgrado e in altre città del Paese migliaia di persone continuano a scendere in piazza ogni settimana al grido «non scaverete» per denunciare un progetto che secondo gli ambientalisti devasterebbe il suolo e inquinerebbe i fiumi e le acque sotterranee che attraversano la valle.

L’area contiene uno dei più grandi giacimenti d’Europa di un minerale che è essenziale per la produzione delle batterie delle auto elettriche. Il governo serbo ritiene che la miniera rappresenti una grande occasione per lo sviluppo economico del Paese e la moltiplicazione dei posti di lavoro. Ma soprattutto contribuirebbe a ridurre la dipendenza mineraria dell’Europa dalla Cina e darebbe quindi a Belgrado – già candidata all’adesione all’Ue – un grande potere contrattuale nei confronti di Bruxelles. L’Europa non dispone ancora di una rilevante produzione interna del metallo bianco e, secondo le stime più accreditate, questa miniera riuscirebbe a soddisfare circa il 17 percento della domanda di litio prevista dall’intera manifattura europea.

I manifestanti non sono però disposti a cedere e chiedono a gran voce il blocco del progetto oltre a una legge che vieti l’estrazione del litio in tutto il Paese. Secondo l’ultimo sondaggio effettuato dal New Serbian Political Thought, un istituto di ricerca di Belgrado di orientamento conservatore, gran parte dei cittadini serbi sono contrari e pensano che il governo voglia svendere la salvaguardia dell’ambiente e la qualità della vita della popolazione pur di accontentare l’Europa. In realtà, quella contro l’estrazione del litio nella Serbia occidentale è una protesta che si protrae ormai da anni. Già nel 2021, il governo di Belgrado aveva affidato la realizzazione dell’impianto alla multinazionale Rio Tinto, per un investimento di circa 2,5 miliardi di dollari ma allora le numerose proteste di movimenti ambientalisti e partiti politici spinsero l’esecutivo a revocare le concessioni per lo sfruttamento delle miniere alla multinazionale.

Nel luglio scorso, però, la Corte costituzionale serba ha annullato la revoca delle licenze dando il via libera definitivo al progetto. E pochi giorni dopo la sentenza, il presidente Aleksandar Vucic ha incontrato il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il vicepresidente della Commissione Europea Maros Sevcovic al vertice sulle materie prime critiche a Belgrado.

In quell’occasione è stato firmato un memorandum d’intesa che avvia un partenariato strategico tra l’Unione Europea e la Serbia sulle materie prime sostenibili, sulle catene di produzione delle batterie e sui veicoli elettrici. Vucic si è anche impegnato a non vendere il litio alle case automobilistiche cinesi. Secondo molti analisti la decisione di Belgrado di consentire a una multinazionale occidentale di sfruttare le risorse naturali del Paese – con la conseguente autonomia sul fronte dell’approvvigionamento energetico – rappresenterebbe anche un segnale di allontanamento della Serbia dalla sfera di influenza russa. Ma il braccio di ferro con gli attivisti continua e le proteste di piazza si fanno sempre più aspre, tra disordini, arresti e accuse di corruzione rivolte all’esecutivo del primo ministro Ana Brnabiæ.

Le manifestazioni hanno ormai assunto una dimensione che va oltre la battaglia ecologista, al punto che il presidente Vucic ha paventato il rischio di uno scenario «simile al Maidan ucraino», insinuando un possibile tentativo di colpo di Stato sostenuto dall’estero.

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