Una donna irachena con il figlio lascia con altri sfollati la periferia orientale di Mosul (Mosul)
Sono per ora salvi gli oltre cento iracheni cristiani che l’Amministrazione Trump aveva deciso di deportare. Ma solo temporaneamente Un giudice federale americano ha infatti sospeso per quindici giorni il rimpatrio di 114 iracheni, in maggioranza cristiani caldei, che rischierebbero persecuzioni o la morte se tornassero in patria.
Nelle scorse settimane gli agenti dell’immigrazione, Ice, avevano arrestato gli immigrati, presenti sul suolo americano senza documenti di soggiorno, eseguendo ordini di espulsioni emessi dalla nuova Amministrazione repubblicana sulla base di presunte incriminazioni penali, non verificate dalle associazioni in difesa di rifugiati e migranti: per molti potrebbe infatti trattarsi anche di semplici segnalazioni dei servizi fedeli al defunto dittatore Saddam Hussein, o reati minori. Gli avvocati dell’Organizzazione non governativa American Civil Liberties Union sono infatti intervenuti, sostenendo che queste persone, la maggioranza delle quali «vive negli Stati Uniti da decenni», rischierebbero «con molta probabilità la persecuzione, la tortura o la morte» in Iraq dove il Daesh e altri gruppi jihadisti prendono di mira le comunità cristiane locali.
Il giudice Mark Goldsmith ha accolto la linea della difesa, almeno in modo temporaneo, ordinando di bloccare le procedure di espulsione per almeno due settimane, in attesa di una nuova sentenza. La decisione si applica a tutti gli iracheni che rientrano nella giurisdizione dell’ufficio Ice di Detroit.
Nei suoi primi mesi al potere Donald Trump ha fatto dell’istituzionalizzazione di pratiche anti-immigrati il fulcro della sua presidenza. Ha emanato infatti due divieti agli ingressi di stranieri musulmani e rifugiati (congelati da tribunali d’appello) e avviato la progettazione di un “grande muro” con il Messico. Fra la firma del primo e del secondo “muslim ban”, Trump ha lanciato una massiccia campagna di rimpatri forzati, nella quale sono rientrati gli arresti dei 114 iracheni caldei, che sta avendo pesanti costi umani. Le nuove regole sulle deportazioni concedono infatti agli agenti di frontiera il potere di detenere chiunque «nel giudizio di un ufficiale di immigrazione costituisca un rischio per la sicurezza». Una discrezione che ha suscitato inquietudine, soprattutto nel mondo cattolico.
Il patriarca di Baghdad Louis Raphael I Sako ha infatti inviato una lettera al vescovo caldeo Frank Kalabat, alla guida dell’Eparchia di San Tommaso Apostolo a Detroit, nella quale esprime solidarietà e vicinanza alle famiglie degli iracheni colpiti dalle disposizioni di espulsione. La Chiesa caldea auspica inoltre che il governo statunitense trovi adeguata soluzione all’emergenza umanitaria provocata dalle misure di allontanamento, rivolte anche contro padri di famiglia con figli piccoli, che vivono del lavoro svolto negli Stati Uniti.