Lo scrittore israeliano Etgar Keret
«Israele è in guerra per la propria sopravvivenza da prima del 7 ottobre. Il Paese è lacerato da un duplice conflitto. Quando c’è stato l’attacco di Hamas ed è iniziata l’offensiva su Gaza – che poi si è estesa al Libano e, ora, forse, all’Iran –, un altro scontro era già in corso da oltre un anno: quello per salvare la propria essenza liberale e democratica dall’attuale governo di estrema destra e di coloni, guidato da Benjamin Netanyahu. E dei due, mi spaventa di più il secondo». Lo sguardo dolce e il tono gentile di Etgar Keret contrastano con la durezza delle sue parole. Sente, però, il dovere di pronunciarle poco dopo il termine di questo anno «lungo come l’eternità e arido come il deserto» in cui si cammina fra montagne di cadaveri senza un orizzonte chiaro. Scrittore tra i più letti e noti del panorama israeliano, maestro della narrativa breve, regista e sceneggiatore, Keret è intimamente legato a Tel Aviv, dove abita, in un luminoso appartamento al primo piano. «Israele per me non è una nazione o una bandiera bensì la sua gente, i paesaggi, il senso di comunità e, soprattutto, la lingua. Nei miei 57 anni di vita ho risieduto solo in quattro case, situate in un raggio di cinque chilometri perché amo il quartiere, i suoi gatti, le sue strade. Non riesco a farne a meno», racconta l’autore di “Sette anni di felicità”, nipote di sopravvissuti alla Shoah e attivista per il dialogo mentre Hanzo, il coniglio bianco, si aggira con circospezione intorno al tavolo.
Non ha mai pensato di trasferirsi all’estero a causa della guerra?
Quale guerra? Non quella con Hamas o Hezbollah o quella eventuale con Teheran. Nessuno di questi conflitti mi ha spinto o mi spingerebbe ad andare via. Lo farei solo se Israele perdesse l’altra guerra e si trasformasse in un Paese in cui non possa più esprimere le mie idee o lottare per la libertà. Un Paese in cui non mi identifico più e che non riconosco. In quel caso, partirei. E vivrei in un esilio perenne. Nessun Paese potrebbe prendere il posto di Israele nel mio cuore.
Una parte di società israeliana è, dunque, in guerra con il governo Netanyahu?
Direi la parte preponderante. Alle proteste contro la riforma giudiziaria di due anni fa hanno preso parte sette milioni di persone. Il punto è che un gruppo di coloni e ultraortodossi, insieme a Netanyahu, tiene prigioniero il Paese. L’ho scritto da poco: ci sono 101 ostaggi trattenuti da Hamas a Gaza e 7 milioni di israeliani ostaggio di questo governo orribile che ci impedisce di riportare a casa i rapiti dalla Striscia. Il suo obiettivo è trasformare la nostra democrazia in uno Stato ebraico fondamentalista. Non è la prima volta che accade. I due precedenti intenti, come la storia ci racconta, hanno portato alla caduta di Israele e, infine, alla diaspora. Per questo, sostengo che il maggior pericolo per questo Paese è Netanyahu, non l’attacco dell’Iran. Una guerra con gli ayatollah, o con qualunque “nemico esterno”, non sarebbe in grado di distruggerci. Lo scontro interno sui valori fondamentali che ci tengono uniti, invece, può farlo. Non faccio alcuna fatica a pensare di vivere fianco a fianco con i palestinesi e i libanesi. Credo, anzi, che diventeremmo buoni amici. Certo, ci vorrà tempo. Ma accadrebbe. Non mi immagino, invece, a convivere con i coloni o i fondamentalisti di qualunque religione, per cui la propria ideologia apocalittica vale più delle vite umane.
Nonostante le critiche e oltre un anno di guerra, però, Netanyahu è ancora al potere. Come mai?
Il 7 ottobre è stato uno choc. Quando Netanyahu ha detto: prima facciamo la guerra per salvarci, poi affrontiamo le nostre questioni, tanti, anche fra gli oppositori, gli hanno creduto. Con il passare del tempo, però, ci stiamo rendendo conto tutti che il conflitto è il suo strumento per restare al potere e non assumersi le proprie responsabilità. Per questo, lo prolunga all’infinito. Il contrario della strategia seguita da Israele per settant’anni: le guerre, ad eccezione di quella di Indipendenza, sono sempre state brevi, perché siamo un Paese piccolo che non ne può sostenere a lungo i costi. Combattiamo per cosa, poi? A più di dodici mesi di distanza dall’inizio, il governo non ce lo ha spiegato. Continua a ripetere lo slogan della “vittoria totale” che è come dire “amore completo”, non vuol dire niente. Nei fumetti le vittorie sono totali, nella storia no. I conflitti finiscono con un accordo. L’idea che vuole imporci Netanyahu mi ricorda quella di Sansone, disposto a morire pur di uccidere tutti. È questo il futuro che vogliamo: farci crollare il tempio sulla testa, pur di ammazzare i nostri cosiddetti nemici? Di certo non è quello che sogno per il Paese e per me. Vittoria è costruire non distruggere.
Crede ancora che la pace sia possibile?
Come ho scritto in un saggio durante la guerra a Gaza nel 2014, sono sempre meno interessato alla pace. Credo, invece, nel compromesso. La pace è un dono di Dio, qualcosa di idilliaco, perfetto. Il compromesso, invece, lo fanno gli esseri umani, in cui continuo ad avere fiducia, nonostante tutto. Per questo, non credo che la maggioranza dei palestinesi sostenga l’attacco del 7 ottobre o che gran parte degli israeliani voglia la morte dei gazawi, anche se alcuni sondaggi lo dicono. Un conto è rispondere in astratto a delle domande, specie quando si è arrabbiati, un conto è perpetrare violenze.