Il premio Nobel brasiliano Carlos Nobre
Èun immenso “serbatoio” naturale di CO2. Ogni anno, l’Amazzonia – con i suoi 7,8 milioni di chilometri quadrati di alberi, fiumi ed ecosistemi – assorbe e immagazzina nel proprio corpo vegetale tra 1 e 2 miliardi di tonnellate di gas carbonico, ritirandoli dall’atmosfera. Senza la foresta più grande del pianeta, dunque, ogni intento di frenare il riscaldamento globale e contenere l’aumento delle temperature entro la soglia di equilibrio di 1,5 gradi, come scritto nero su bianco nell’accordo siglato dai leader internazionali a Parigi, è pura utopia.
Ad affermarlo, con tono pacato quanto fermo, è Carlos Nobre, climatologo di fama mondiale, pioniere nell’analisi della crisi climatica in Amazzonia e ricercatore dell’Istituto di studi avanzati dell’Università di San Paolo nonché premio Nobel per la Pace nel 2007 per il contributo alla realizzazione del quarto rapporto dell’International panel on climate change (Ipcc). Per essere davvero incisiva, pertanto, la Cop26 non può prescindere dal dossier Amazzonia. La regione vive un momento drammatico: il disboscamento ha raggiunto il livello massimo degli ultimi venticinque anni: solo nel 2020 sono stati devastati oltre 20mila chilometri quadrati di foresta. Colpa dello sfruttamento selvaggio, legale e illegale, incentivato dalla fame globale di risorse naturali. Gli effetti sono inquietanti. Per la prima volta nella sua storia, lunga quattro milioni di anni, la selva ha iniziato a produrre più diossido di carbonio di quanto riesca a catturarne. Uno recente studio dell’Istituto nazionale di ricerche spaziali (Inpe), pubblicato dalla rivista Nature, ha dimostrato che, tra il 2010 e il 2018, l’Amazzonia è diventata, paradossalmente, un produttore di CO2, con un saldo di emissioni nette di 1,06 miliardi di tonnellate.
Professor Nobre, che cosa sta accadendo all’Amazzonia?
La trasformazione della foresta in savana non è più un rischio futuro: in alcune aree, soprattutto nella parte centrale e meridionale, è già in atto.
Lei è stato il primo, nel 1990 e 1991, a dare l’allarme sulla possibile «savanizzazione» dell’Amazzonia. Ora il pericolo paventato è diventato realtà?
Per fortuna non ovunque. Ma in alcuni punti i segnali sono inequivocabili. Nel sud dell’Amazzonia, la stagione secca si è allungata di tre o quattro settimane rispetto agli anni Ottanta e, di conseguenza, la temperatura è cresciuta di due o tre gradi mentre le precipitazioni sono calate del 20 o 30 per cento. Questo ha fatto aumentare la mortalità degli alberi. Circa il 17 per cento di foresta è stato distrutto, un altro 17 per cento si trova in diversi stadi di degrado ambientale. Il processo è avvenuto in meno di cinquant’anni: fino al 1975, il disboscamento arrivava allo 0,5%.
L’Amazzonia è perduta?
Non abbiamo ancora raggiunto il <+CORSIVO50>tipping point<+TONDO50>, il punto di non ritorno. Non manca molto però: la soglia è il 25% di foresta distrutta e una superficie analoga in stato degrado. Se questo accadrà nel giro di trenta o, al massimo, cinquant’anni, i due terzi di Amazzonia diventeranno un’enorme savana. E tra i 150 e i 200 miliardi di tonnellate di diossido di carbonio verranno liberati nell’aria, vanificando gli sforzi di contenimento dell’accordo di Parigi.
Che cosa si può fare per arrestare il processo?
Fermare immediatamente il disboscamento, legale e illegale. E rigenerare le aree forestali distrutte. Sarebbe un grande aiuto nella lotta alle emissioni. Un bosco in crescita assorbe tra le 12 e le 15 tonnellate di CO2 per ciascuno dei venticinque anni in cui in media completa lo sviluppo. I costi non sono astronomici: sono stimati sui 2 o 3mila dollari l’ettaro, per un totale di circa un miliardo di dollari. Ovvio, la maggior parte dei Paesi dove si trovano le principali selve del pianeta, dal Congo all’Amazzonia, sono poveri. Occorre, dunque, il supporto delle nazioni ricche.
In quale modo?
Con la creazione di un fondo ad hoc. La Cop26 potrebbe prevederlo, in aggiunta alle altre forme di finanziamento previste.
Veniamo al primo punto. È possibile una moratoria effettiva sulla deforestazione?
Non c’è alternativa. E ribadisco: occorre arrestare qualunque tipo di disboscamento, legale o illegale. In Brasile, tra il 40 e il 45% della deforestazione si verifica nei terreni pubblici che, poi, vengono incamerati dai latifondisti locali. L’occupazione abusiva viene, in seguito, regolarizzata, come accaduto nel 2012 e quest’anno. Una vera e propria industria di legalizzazione dei crimini ambientali, promossa dalla lobby dell’agro-business che gode di forti sostegni politici.
Come spezzare questo meccanismo perverso?
L’Unione Europea è il maggior importatore di soia e carne dall’Amazzonia, dopo la Cina. Dovrebbe, dunque, approvare la legge, al momento in discussione, che vieta l’acquisto di prodotti frutto di deforestazione. Il Regno Unito sta per farlo. La misura britannica, tuttavia, è ambigua perché parla solo di disboscamento «illegale» e il confine è spesso sottile.
Il Coordinamento delle organizzazioni indigene del bacino amazzonico (Coica) chiede di tutelare l’80% della foresta entro il 2025 e di attribuire un ruolo cruciale nella gestione ai nativi. Che cosa ne pensa?
Gli indigeni sono i migliori custodi della selva. Nelle loro terre c’è il 7 o l’8% di disboscamento, tra la metà e un terzo rispetto al resto. Ciò non significa che non siano intervenuti nell’ecosistema. Lo hanno fatto, come dimostrano le 400 varietà di manioca coltivate e le oltre mille di cacao. Hanno, però, modificato l’Amazzonia senza distruggerla perché per i popoli nativi questa non è una risorsa da sfruttare ma un valore estetico e spirituale.