Giovani cinesi in un internet bar - Archivio Ansa
Il braccio di ferro tra Stati e i giganti della Rete si intensifica con un andamento negli ultimi 12 mesi favorevole ai primi, tuttavia questo passaggio di consegne sta avvenendo in un tempo in cui le pressioni sulla libertà di espressione online hanno raggiunto nuovi record. A confermarlo è il rapporto annuale di Freedom House sulla libertà della rete intitolato «The Global Drive to Control Big Tech» (La spinta globale al controllo di Big Tech) che tra i 70 Paesi presi in esame ne individua 56 in cui individui sono stati arrestati per essersi espressi online.
«In almeno 20 Paesi – ricorda l’organizzazione non governativa con sede a Washington – i governi hanno bloccato l’accesso a Internet e in altri 21 hanno impedito alla popolazione di accedere alle piattaforme social, soprattutto in periodi di tensioni sociali o di elezioni».
«Le tattiche di manipolazione e disinformazione hanno giocato lo scorso anno un ruolo importante nelle elezioni in almeno 18 Paesi, Stati Uniti compresi», scesi di cinque posti dal 2019, segnala Freedom House. «Nonostante la necessità in molte nazioni di regolamentare correttamente una situazione aperta ad abusi, manipolazioni e anche a falsità, la repressione digitale che va intensificandosi e espandendosi sollecita tra gli utenti in molti Paesi una riflessione se le iniziative ufficiali siano davvero indirizzate alla regolamentazione di Internet e a una concreta tutela dei loro diritti».
Esemplare il «caso» della Repubblica popolare cinese, inserita per il settimo anno consecutivo al fondo (cioè come maglia nera) della classifica di Freedom House. Qui le autorità hanno continuato a imporre pesanti condizionamenti su dissenso, informazione indipendente e comunicazioni sociali. Il Covid-19 è stato tra i temi maggiormente sottoposti a censura mentre i colossi del Web sono stati presi ancor più di mira dalla nuova ondata moralizzatrice riguardo a competizione e tutela dei dati, con il risultato di concentrare ancor più il potere nelle mani della leadership politica ed erodere diritti fondamentali.
La Cina si è distinta per intensità della repressione e per la varietà delle limitazioni imposte sulla Rete a partire da servizi come Facebook, Instagram, Telegram, TikTok, Twitter, WhatsApp e YouTube essenziali, ad esempio, nell’azione dei movimenti democratici di Hong Kong fino alla «normalizzazione» imposta da Pechino. Significativamente, quella che Pechino considera una «provincia ribelle», Taiwan, è stata invece una new entry al lato opposto della classifica.
Il penultimo posto su una scala decrescente da 1 a 100 – che ha in cima l’Islanda con 96 punti, seguito da Estonia, Canada, Costa Rica e Taiwan, – va all’Iran e il terzultimo al Myanmar. Quest’ultimo significativamente sceso di ben 14 posizioni dall’anno precedente, preceduto da Cuba, Vietnam, Arabia Saudita, Pakistan e Egitto. Tra i 21 Paesi considerati «non liberi» per quanto riguarda l’utilizzo e il controllo di Internet vi sono anche, a salire dal fondo, Etiopia, Venezuela, Russia, Bielorussia, Turchia e Thailandia.
Italia e Stati Uniti si collocano tra i primi Paesi in cui vige la libertà di utilizzo della Rete, rispettivamente con 76 e 75 punti, preceduti dal Giappone e dai maggiori partner europei.