Consolidata ormai da tempo la presenza economico- politico-militare in Africa, la Cina punta alla fase due dell’espansione della sua influenza nel continente. È il “soft power”, quel potere morbido che si dipana attraverso cultura di massa e media e che vede maestri gli Usa, che ha fatto anche dei film di Hollywood una preziosa arma di consenso nel mondo. Di soft power si parla anche per la diffusione della propria lingua nazionale all’estero, proprio l’obiettivo più recente che Pechino si è data nella sua campagna d’Africa. Se già nel 2014 l’insegnamento del mandarino è diventato corso opzionale di lingua per gli studenti in Sudafrica e dal dicembre 2018 l’Uganda ha introdotto il mandarino come materia di studio per alcune scuole selezionate, il Kenya diventerà il primo Paese africano in cui, dal prossimo anno, il mandarino sarà insegnato in tutte le scuole, insieme al francese, al tedesco e all’arabo.
A livello sperimentale, già quest’anno il mandarino ha fatto il suo ingresso in alcune aule keniane. Come alla Lakewood premier school, dove gli studenti già sono in grado di cantare l’inno nazionale cinese a quasi 8mila chilometri da Pechino. «Ho scelto di studiare il cinese sia per imparare una lingua straniera che per poter viaggiare e lavorare in Cina», spiega la 13enne Sandra Wanjiru. E a chi parla di “colonizzazione culturale”, le autorità scolastiche keniane ribattono che il ruolo della Cina nell’economia globale, e ormai anche del continente africano, è cresciuto così tanto che il Kenya può trarre solo enormi benefici dal fatto che i suoi cittadini parleranno il mandarino. Affamata di risorse naturali come petrolio e minerali per spingere la sua crescita economica, Pechino ha allacciato rapporti sempre più stretti in Africa, dove, seguendo il principio di non ingerenza negli affari interni degli altri Paesi, è ben vista in molti Stati del continente caratterizzati da scarsa trasparenza e conflitti interni.
Numerosi gli investimenti, generosi i prestiti (oltre 143 miliardi di dollari dal 2000 a oggi, secondo alcune stime) concessi dalle autorità cinesi e che hanno contribuito alla costruzione di autostrade, dighe, aeroporti, stadi sportivi. Difficile però sottovalutare gli aspetti negativi, come l’accaparramento delle terre e le devastazioni ambientali, mentre di pari passo è cresciuta l’influenza politica di Pechino, nel tentativo di soppiantare nel continente il ruolo di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. L’insegnamento del mandarino è, dunque, solo l’ultima frontiera. I docenti vengono affiancati da tutor degli Istituti Confucio, un’organizzazione che promuove la lingua e la cultura cinesi nel mondo. Il primo Istituto in Africa è stato aperto nel 2005 all’università di Nairobi: oggi se ne contano 48 in tutto il continente, finanziati in parte dal governo cinese e in parte dalle università che li ospitano. Oggi la Cina è seconda solo alla Francia per numero di istituti culturali in Africa, risultato considerevole tenendo conto che la Cina non ha avuto legami coloniali nel continente. Negli Usa diversi college hanno di recente tagliato i loro rapporti con gli Istituti Confucio, sostenendo che i suoi programmi altro non sono che propaganda del partito comunista cinese travestita da corsi di lingua e cultura. «Vogliamo solo dare migliori opportunità di lavoro ai nostri giovani », sostiene Henry Adramunguni dell’autorità scolastica ugandese. E per Russell Kaschula, docente alla Rhodes University in Sudafrica, «imparare il cinese oggi è cruciale come lo era imparare inglese, francese e portoghese nel 19esimo secolo in Africa. In fondo anche Nelson Mandela aveva imparato l’Afrikaans in modo da comprendere meglio gli oppressori Afrikaner».