domenica 21 giugno 2020
Il pluripremiato fotografo-esule che documenta le atrocità di Assad si è visto negare il visto Usa in base al Travel ban di Trump. Ora chiede asilo a Londra
Le tombe scavate di fresco nel cimitero di Douma, nel giugno del 2014 durante l'assedio

Le tombe scavate di fresco nel cimitero di Douma, nel giugno del 2014 durante l'assedio - Abd Doumany

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Dentro un salone per le feste di matrimonio con le pareti ricoperte di specchi, negli anni dell’assedio era allestito l’ospedale da campo della cittadina siriana di Douma, alle porte di Damasco. «Quando i feriti venivano fatti entrare d’urgenza, non potevano fare a meno di vedere la propria immagine riflessa, uno spettacolo che li terrorizzava», racconta il fotografo siriano Abd Doumany (questo il suo pseudonimo perché teme ancora ritorsioni) 30 anni, due volte premiato con il “World Press Photo” per gli scatti inviati dalla sua città assediata e oggi richiedente asilo in Gran Bretagna.

La guerra civile è ormai entrata nel suo decimo anno e di questo interminabile periodo, ciascuno dei 12 milioni di cittadini rifugiati all’estero o sfollati interni ha una storia personale da raccontare. Una storia di dolori, distacchi forzati, lutti e funerali. Una storia di notti trascorse in una tenda o in paesi dove ci si sente ospiti indesiderati.

Abd Doumany ha raccontato la sua personale vicenda attraverso le fotografie: lo avevamo intervistato la prima volta nel 2014, “a distanza”, quand’era sotto i bombardamenti dell’esercito di Assad. Allora la comunicazione telefonica veniva spesso interrotta per le bombe mentre lui descriveva le misere condizioni di vita sotto l’assedio, quando la gente impastava il pane usando mangime per animali. Raccontava di come, studente di odontoiatria, avesse iniziato a fotografare invece di unirsi alle milizie anti-governative.

«La macchina fotografica mi ha fatto un grande favore: ha evitato che diventassi un combattente». Da allora ha vissuto le giornate più feroci della guerra scattando foto poi finite sulle prime pagine di New York Times e Washington Post, tra le tante testate internazionali. Sfollato forzatamente dal regime verso Idlib, è fuggito in Turchia, come centinaia di migliaia di rifugiati prima e dopo di lui.

Avrebbe dovuto raggiungere gli Usa con una borsa di studio del-l’Artist Protection Fund, ma il “Travel ban” dell’amministrazione Trump glielo ha impedito. Alla fine è giunto nel Regno Unito. Lì lo abbiamo incontrato prima dello scoppio della pandemia e prima del lockdown, nelle sale che ospitavano la sua mostra fotografica personale allestita al London College of Communication. No more flowers» è stato il titolo scelto, «niente più fiori», perché in città martoriate come la sua, i morti sono stati così numerosi da non esserci più fiori per i funerali. «Tutti abbiamo perso qualcuno» si sente spesso ripetere parlando con cittadini siriani.

Circa 400.000 erano le vittime stimate nel 2016 dall’allora inviato speciale Onu, Staffan de Mistura. Le Nazioni Unite non hanno più aggiornato le cifre. I morti sarebbero 585.000 per l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani che ha diffuso a inizio anno la propria conta aggiornata. Come si può vivere una vita normale, avendo negli occhi (e in tanti scatti fotografici) le immagini di padri che reggono i corpi scomposti dei propri bambini esanimi o le scene di confusione tra vivi e morti di un ospedale da campo?

Doumany risponde che per lui la normalità «non riuscirà mai a essere facile» anche se ora è al sicuro. «È davvero duro tornare agli scatti del mio archivio. Le persone ritratte sono state fotografate senza il loro consenso, non c’era tempo, era una guerra! Si fotografava pensando che sarebbe servito a cambiare qualcosa, a raccogliere prove. Quando, però, ti accorgi che non è cambiato niente, allora senti che forse hai solo privato della dignità i corpi dei morti e rotto qualcosa nei momenti privati tra i familiari di chi se n’era appena andato. È una sensazione dolorosa». Così ora si interroga sul valore etico di ogni scatto. Per la sua mostra ha voluto teli di copertura, «a protezione della dignità dei corpi ritratti».

Al visitatore veniva lasciata la scelta di sollevare oppure no i tessuti di colori sgargianti, «rosa, arancio, giallo, gli stessi che eravamo obbligati a usare per avvolgere i corpi in tempi di assedio, quando non avevamo più panni funebri ». Torna indietro con la memoria a nove anni fa, a quello a cui ha assistito da principio. «Dopo che Assad rispose con la violenza alle manifestazioni pacifiche, semplici ragazzi che di mattina avevano un lavoro, la sera impugnavano le armi per proteggere chi manifestava».

Era presente quando i ribelli cominciarono il reclutamento, gli venne permesso di fotografare incontri clandestini e addestramenti: «La gente si univa facilmente ai ribelli, perché venire bombardati ogni giorno ti riempie di rabbia, e sotto l’assedio non hai nulla da fare. C’è un solo modo per consumare l’energia: combattere. Sono seguite la produzione di razzi artigianali e la propaganda per attrarre sponsor e sostenitori. Da principio le persone guardavano ai ribelli come a degli eroi, li proteggevano e sfamavano. Poi, quando hanno cominciato ad avere il controllo di ogni dettaglio della nostra vita, abbiamo iniziato a temerli».

Oggi a Doumany capita di dover spiegare cos’è accaduto in Siria a chi ne sa poco o proprio nulla. «Non è mai facile raccontare da zero, devi aspettarti domande che ti feriscono, perché non tengono conto del legame personale che hai con i fatti e del dolore per chi hai perso». Fotografo «suo malgrado», il suo archivio è un compendio di tutte le fasi della guerra, una spirale che toglie il respiro, verso il buio. «Non sono quel tipo di fotografo-eroe che cerca l’adrenalina », ma ammette di non essere più nemmeno la persona ingenua di sei anni fa: «Oggi cerco di fare del mio meglio con queste immagini in modo da ricreare storie senza violare la dignità delle persone ritratte. È la mia missione. Posso raccontare quello che è successo da una prospettiva interna. Conosco gli aspetti più terribili di un conflitto, conosco la lotta della popolazione in guerra. Sono stato parte di quella popolazione».

L’epilogo di questa storia vede milioni di siriani rifugiati in giro per il mondo. Per l’Acnur/Unhcr sono oltre 5 milioni e 500mila quelli registrati, quasi 3 milioni e 600mila solo in Turchia. «Nessuno vuole rientrare in Siria, perché il regime che per anni ha torturato e ucciso è ancora lì. La guerra può sembrare finita, ma non lo è. A Douma, come altrove, l’economia è al collasso, si patisce la fame. Ci sono ancora arresti e uccisioni», aggiunge e parla poi con inquietudine anche di «un’ampia campagna lanciata dal regime per cancellare ciò che è accaduto e cambiare il modo di raccontare la storia. Così fra dieci anni non sarà più possibile ricostruire gli eventi».

Per questo motivo il fotografo ha messo in mostra a Londra anche un enorme taccuino in cui sta pazientemente trascrivendo a mano i nomi dei suoi concittadini caduti. Quando il regime ha ripreso il controllo della città, i registri del cimitero sono spariti. «Ho fatto delle ricerche, e ho cominciato a recuperare i nomi dei morti nei massacri, per ora 8.000. Sto riscrivendo i registri a mano e non in formato digitale perché nessuno possa modificarli».

Raccogliere queste informazioni è «un processo lungo e lento » dice, in cui gli capita di incontrare nomi di persone che conosceva, «alcuni della mia famiglia, altri di amici. Sotto assedio è accaduto tutto così velocemente, si perdevano persone ogni giorno. Questo per me è anche il modo per ritrovare il mio tempo, elaborare lentamente quello che è successo e piangere coloro che ho perduto». Un atto necessario, umano, che per milioni di rifugiati avviene a distanza nel tempo e nello spazio, lontano dal proprio Paese e dalle spoglie di chi non c’è più.

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