martedì 24 settembre 2024
Era il 1968 quando l'uomo, 32 anni, fu condannato alla pena capitale per l’omicidio di un'intera famiglia. Dopo decenni di carcere duro, il nuovo processo e giovedì la sentenza
Una manifestazione in Giappone contro la pena di morte

Una manifestazione in Giappone contro la pena di morte - ANSA

COMMENTA E CONDIVIDI

Siamo tutti condannati a morte. Ma non condannati a trascorrere i giorni della nostra vita nell’attesa opprimente che lo Stato decida della nostra sorte. È più disumano essere uccisi per sentenza a 44 anni o essere tenuti ostaggio dai tribunali per altri 44, sapendo che ogni giorno potrebbe essere quello dell’impiccagione? «Da così tanto tempo combattiamo una battaglia che sembra infinita», ha detto ai giornalisti Hideko Hakamada, 91 anni, sorella di Iwao, 88. L’uomo, alla vigilia della nuova sentenza, vive ormai «in un mondo di fantasia», spiega il suo avvocato Hideyo Ogawa. Viene da chiedersi in che modo, e in che mondo, abbia vissuto la maggior parte della sua lunga vita.

Era il 1968 quando Iwao, 32 anni, pugile, fu condannato a morte per l’omicidio del suo capo, della moglie di lui e dei loro due figli adolescenti. Dodici anni dopo, nel 1980, la Corte Suprema confermò la pena capitale. Negli anni successivi, da più parti si sollevarono perplessità sul caso.

All'epoca dell’arresto, Hakamada negò di aver derubato e ucciso le vittime. Per poi confessare in quello che in seguito descrisse come un brutale interrogatorio della polizia. Tutta l'accusa si fonda sul ritrovamento di un mucchio di vestiti macchiati di sangue in una vasca di miso (pasta di soia fermentata) un anno dopo gli omicidi del 1966. La difesa sostiene che a metterceli siano stati gli stessi investigatori, perché le macchie risultavano brillanti. I pubblici ministeri affermano che le prove scientifiche convalidano la compatibilità di quel colore con l’epoca del delitto.

Dopo decenni trascorsi dal condannato in cella, per lo più d'isolamento, nel 2014 dubbi sulla legittimità della sentenza portarono alla sua scarcerazione in vista dell'avvio di un nuovo processo. Rinviato fino al 2023 per cavilli legali. Dopo che la procura ha ribadito la convinzione di colpevolezza «oltre ogni ragionevole dubbio», giovedì il tribunale si dovrà pronunciare. Sarà pena di morte oppure assoluzione.

Dal dopoguerra, nella storia moderna del Giappone Hakamada è il quinto condannato a morte cui sia stato concesso un nuovo processo. Tutti e quattro i casi precedenti si sono conclusi con l'assoluzione. Stati Uniti e Giappone sono le sole grandi democrazie industrializzate dov’è in vigore la pena capitale, che nel Paese asiatico viene comminata per impiccagione. I condannati vengono informati dell’esecuzione poche ore prima.

Quello di Hakamada è «solo uno degli innumerevoli esempi del cosiddetto sistema giapponese di "giustizia degli ostaggi"», ha commentato con l’agenzia Afp Teppei Kasai, responsabile del programma Asia per Human Rights Watch. «I sospettati sono costretti a confessare attraverso lunghi e arbitrari periodi di detenzione» e spesso vengono «intimiditi nell'interrogatorio».

Non c'è, in tutto il mondo, un detenuto che sia rimasto nel braccio della morte più a lungo di Hakamada.

«Ma credo che questa volta sarà messa la parola fine», sospira la sorella di Iwao. Quella, prima o poi, arriva per tutti.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI