mercoledì 20 gennaio 2016
A quota 115mila euro la raccolta per l’emergenza Kurdistan.  
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Domenica altre 47 famiglie, giunte da pochi giorni ad Erbil dal deserto dell’Anbar, hanno ricevuto un pacco con generi alimentari e kit igienico sanitari dal team Focsiv. È una goccia di umanità, per questa nuova schiera di senza nome, scappati rocambolescamente al fronte di Ramadi. L’inverno rigido è arrivato, con il termometro che ora di notte scende regolarmente sotto zero, anche se stufette e generatori già consegnati l’anno scorso, non fanno più gridare all’emergenza gelo. Se le notizie dal fronte di Ramadi giungono alla spicciolata, come i nuovi profughi, ora è decisamente il senso di impotenza e di estenuante attesa a prevalere. Solo la notizia di un attacco decisivo alla vicina Mosul, sempre annunciato e mai attuato, potrebbe dare almeno la speranza che una soluzione alla crisi si stia finalmente avvicinando. Intanto la presenza di Focsiv si sta trasformando a poco a poco da supporto a supplenza alle grandi agenzie delle Nazioni Unite. Molto apprezzato il lavoro di protezione dei minori che prevede a febbraio, dopo l’apertura in estate dell’Hope center al campo dei mille container, un se- condo asilo ad Asti 128. Un piccolo aiuto mentre al campo si moltiplicano i casi di violenza domestica e recentemente una donna, in un raptus di follia, si è data fuoco. Grazie ai fondi raccolti da Focsiv nel 2014 sono state garantite le medicine al dispensario di Saint Joseph fino a fine mese, sinora fornite da altri donatori. Anche a questi bisogni, lasciati scoperti da altri organismi, la Focsiv cercherà per quanto possibile di rispondere. La campagna di Natale del 2015, che proseguirà per alcune settimane, ha già superato i 115mila euro. Una goccia, ma molto tenace e determinata, di solidarietà mentre il ritorno a casa pare ormai un miraggio. L’altro miraggio, ugualmente beffardo, è quello della fuga in Europa. Chi può, anche fra gli alti funzionari di compagnie petrolifere e multinazionali, sta cercando contratti sicuri altrove.  I profughi, invece, tentano la sorte alla roulette russa delle traversate sui barconi della morte. Segnali, tutti, di una crisi che come sabbia ormai si insinua fin dentro la macchina, sinora apparentemente inossidabile, della Regione autonoma del Kurdistan. La rottura politica con Baghdad pare ormai un dato di fatto: la capitale federale non riversa più nelle casse di Erbil il 18% delle vendite petrolifere. Una chiara ritorsione alla decisione unilaterale del Kurdistan iracheno di vendere in autonomia il petrolio lungo l’oleodotto che da Kirkuk va a Gihan. Una seconda pipeline autonoma, mentre quella in mano al governo, che solcava anche Mosul, è per alcuni chilometri sotto il controllo degli uomini del Daesh. Contratti firmati direttamente a Erbil, grazie agli evidenti legami con Ankachia ra del Pdk, il partito di governo, ma che ha aperto una crisi politica a Erbil.  Il Parlamento non si riunisce più da ottobre, mentre Goran, la terza forza politica locale, è uscita dal governo. Petrolio venduto, nel generale ribasso del greggio, a prezzi stracciati. «Anche 10 dollari al barile» si dice, come si mormora pure di petrodollari che vanno ad alimentare poco chiari potentati personali. Inoltre, nel complicato sudoku iracheno, la Tur- ha chiuso la dogana a tutte le merci dirette ad Erbil ad eccezione degli alimentari. Così, tra strappi da Baghdad e contratti al ribasso, il governo non paga più gli stipendi da quattro mesi, mentre pure i peshmerga sono senza paga da tre mesi. E pochi giorni fa il governo regionale ha svalutato del 5 per cento il dinaro, la divisa locale. Uno stallo economico che rende sempre più pesante la situazione umanitaria.  L’Ocha, l’agenzia per gli aiuti umanitari delle Nazioni Unite, lo scorso mese di giugno ha lanciato un appello per una nuova campagna ai Paesi donatori. Un piano da 700 milioni di dollari ma ne sono stati raccolti solo 518, mentre in quasi due anni i profughi sono saliti da 2 a 3,2 milioni, metà dei quali in Kurdistan. Un buco del 30% nel bilancio che pare destinato ad ampliarsi. Il rischio, denunciava ancora mesi fa la coordinatrice degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite, è il «collasso per mancanza di fondi». Questo vuol dire che metà degli interventi in tutto l’Iraq, «è a rischio di essere fortemente ridotto se non addirittura chiuso». Per cui, nel fuggi fuggi generale, diventa più che mai decisiva la presenza del volontariato internazionale.
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