Avreste mai detto che la deterrenza nucleare, quell’impossibile confronto che per il lungo inverno della Guerra fredda e anche oltre aveva garantito una pace armata fra le superpotenze potrebbe ripresentarsi nel nuovo assetto che prenderà il Medio Oriente? L’ipotesi è tutt’altro che peregrina e si inscrive nell’ambizioso piano a guida americana che ridisegna – dopo la lunga latitanza della Casa Bianca – il profilo di una delle aree più calde del mondo.
Il passaggio obbligato è la normalizzazione dei rapporti fra Israele e l’Arabia Saudita, la legittimazione del gigante sunnita dell’antico «nemico sionista», stadio conclusivo e ideale di quegli Accordi di Abramo siglati nel 2020 da Benjamin Netanyahu con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein, cui si è aggiunto il Marocco, che insieme a Egitto e Giordania costituiscono un solido fronte anti-iraniano.
Ma dire Iran e parlare del nucleare è passaggio altrettanto obbligato. E cosa vuol dire nucleare? L’energia atomica a scopi civili? O l’utilizzo dell’uranio arricchito con cui allestire un arsenale atomico? Entrambe le cose, teoricamente, anche se si è sempre pronti a negarlo. All’ambizioso principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MbS il petrolio – che pure svetta sopra i 90 dollari al barile e di cui il suo regno è il massimo esportatore mondiale – non basta più. Già cinque anni fa l’Arabia Saudita aveva annunciato l’intenzione di costruire 16 reattori nucleari per un investimento complessivo di 80 miliardi di dollari con l’obiettivo di ridurre la sua dipendenza dal settore degli idrocarburi. Mbs vuole sfruttare quell’energia esattamente come intendono sfruttarla gli iraniani. A un’ovvia condizione: che Teheran non punti ad estendere il proprio programma di arricchimento dell’uranio fino a potersi dotare della bomba sciita. A questo scopo Washington e Mosca si interpongono come avveduti fratelli maggiori: i russi per sorvegliare e guidare la tecnologia iraniana in attesa che riprenda il dialogo fra gli Stati Uniti e Teheran; Israele come partner speciale per l’uranio saudita.
Ma proprio da Israele viene un segnale d’allarme. Il leader dell'opposizione Yair Lapid ha bocciato l’ipotesi americana di consentire un arricchimento dell'uranio in Arabia Saudita, «in quanto potrebbe consentire ai sauditi di sviluppare armi nucleari e innescare una corsa a simili armamenti in tutto il Medio Oriente. Le democrazie forti – dice – non sacrificano i loro interessi di sicurezza per la politica. È pericoloso e irresponsabile».
Non neghiamocelo, il club nucleare, un tempo ristretto ai cinque Paesi membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu con diritto di veto (Usa, Federazione Russa, Cina, Regno Unito e Francia) si è gradualmente allargato a India, Pakistan, Israele e Corea del Nord (con un intermezzo sudafricano). Ma al giorno d’oggi la pattuglia degli aspiranti si è considerevolmente ingrossata.
«Siamo preoccupati – ha detto pubblicamente MbS per il fatto che qualsiasi Paese possa ottenere armi nucleari: se dovesse utilizzarle sarà in guerra con tutti i Paesi del mondo e il mondo non può tollerare una nuova Hiroshima».
Con una postilla conclusiva che dice tutto, nella sua raggelante semplicità: «Se l’Iran dovesse dotarsi di un’arma nucleare, anche l’Arabia Saudita a quel punto dovrà possederla».
Come dire – ma auguriamoci davvero che ciò non accada mai – che il prezzo del ridisegno dello scacchiere mediorientale potrebbe comportare una truce riedizione della “mutual assured destruction”, la distruzione reciproca assicurata, come la definì a suo tempo il presidente Eisenhower. Un bel passo indietro di oltre sessant’anni.
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