Le milizie curde delle Unità di Protezione Popolare (YPG) hanno chiesto oggi al governo del presidente siriano Bassar al Assad di aiutarli a proteggere il nord del Paese dall'annunciata offensiva della Turchia. "Invitiamo le forze del governo siriano, che sono obbligate a proteggere il paese, la nazione e le sue frontiere, a prendere il controllo delle aree dalle quali si sono ritirate le nostre forze, in particolare Manbech, e a proteggerle contro un'invasione turca" afferma il gruppo in una nota.
«Durante i combattimenti per riconquistare Hajin abbiamo fermato un quattordicenne che piantava delle mine intorno alla base. Ci ha raccontato d’essersi nutrito di topi e serpenti per settimane. Il 14 dicembre la città era nostra. Pochi giorni dopo, però, con un’abilissima manovra sono riusciti a riprenderne metà. Ormai le milizie sono composte solo dallo zoccolo duro, i più capaci e determinati. Il Daesh sconfitto? Niente affatto».
Dalle retrovie di al-Hasaka “Tekosher”, o Lorenzo, volontario italiano nelle brigate internazionali del Ypg, blocco egemone nella costellazione multietnica e multiconfessionale delle Forze democratiche siriane, commenta la decisione del presidente americano Trump sul ritiro delle truppe. Una svolta spiazzante per le forze politiche e militari a guida curda che dal 2012 hanno colmato il vuoto lasciato da Damasco, riempiendolo con il “Confederalismo Democratico” del Pkk (di cui Ypg è una filiazione): ideologia e istituzioni seminate nelle vaste distese aride riconquistate al sedicente Califfato.
«Non ci eravamo certo illusi che Washington supportasse la rivoluzione nella Siria del Nord, ma confidavamo nei suoi interessi strategici, negli importanti investimenti compiuti. Siamo pronti ad affrontare i Turchi, anche se combattere contro aerei e droni è terribile», spiega Lorenzo, veterano della battaglia di Afrin, strappata in marzo ai curdi da Ankara e dalle sue milizie siriane con l’operazione “Ramoscello d’Ulivo”.
«Speriamo che la Francia possa sostituire gli Stati Uniti nel Nord della Siria, imponendo una no-fly-zone su tutta la regione. Ma anche così sarebbe molto difficile», dice ad Avvenire Mustafa Bali, portavoce delle Forze Democratiche Siriane.
«Poche ore dopo il tweet di Trump, Daesh ha attaccato a Deir ez-Zor. I combattimenti proseguono e sono durissimi. La nostra avanzata ha subito un rallentamento sostanziale. Abbiamo già dato avvio a tutte le procedure che servono a organizzare una difesa su più fronti. Resisteremo con ogni mezzo a disposizione».
Nell’estate del 2014, la base di Ain Issa da cui Bali coordina la comunicazione dell’esercito venne travolta dalle brigate islamiste dirette a Kobane e al confine con la Turchia, allora favorevole al collasso del regime damasceno. Nell’inferno dell’assedio nacque il mito della rivoluzione in Rojava (la regione del Kurdistan siriano), si stabilì l’alleanza dei curdi con la coalizione internazionale a conduzione americana e cominciò la lenta regressione del cosiddetto Stato islamico.
«I soldati americani sono ancora presenti, ma noi guardiamo ormai oltre il confine, dove l’esercito Turco ammassa uomini e mezzi. La ricostruzione si è interrotta, così il commercio. Kobane vive nella paura», racconta Serbest Ali, giornalista che ha vissuto la distruzione della sua città sulla linea del fronte. Solo pochi mesi fa la popolazione brulicava intorno ai cantieri e il bazar, metà della forza lavoro era costituita da donne, e i cristiani ottenevano dalle autorità cantonali il permesso per erigere la prima chiesa. «Se la Turchia attaccasse vivremmo lo stesso incubo di Afrin, fatto di radicalismo islamista e violenze quotidiane. Se tornasse Assad dovremmo scegliere da che parte stare, con il rischio immutato di uno scontro fratricida fra curdi. Io non so combattere, resterò con la mia macchina fotografica», promette Ali.