Il presidente Focsiv Gianfranco Cattai
Una campagna, dopo quella del 2014/15 e quella del 2015/16 di “Emergenza Kurdistan”, con l’obiettivo di fare sistema fra le ong di Focsiv presenti in tutta la regione mediorientale.
Gianfranco Cattai, presidente Focsiv: una scommessa di fronte all’emergenza profughi, in Iraq e Siria. Vinta o persa?
Una esperienza positiva e in crescita con forte convinzione dei singoli soggetti che si sono messi in rete. Una scommessa vinta perché alcuni soggetti, che hanno ad esempio la competenza della formazione professionale, si sono impegnati per il futuro. Tutto questo, in prospettiva, ci spinge ad allargare ulteriormente l’impegno.
Tutto questo grazie a donatori seriali e con una media di donazioni vicino ai 200 euro, molto alta. Un «piccolo popolo» che investe in solidarietà internazionale. Quale, invece, il ruolo di donatori istituzionali, fondazioni, enti locali rispetto a questa emergenza?
Vogliamo ringraziare Avvenire per la campagna lanciata assieme, e che ci permette di registrare una sistematicità di alcuni donatori e la soddisfazione delle giuste restituzioni che attraverso il giornale riusciamo a dare. Dall’altra parte, la fotografia che noi facciamo è che gli aiuti internazionali dei donatori stanno diminuendo e le fondazioni nazionali sono abituate a finanziare una sola volta una iniziativa di emergenza. Mentre, dal giorno che abbiamo iniziato questa avventura con lo slogan «Non lasciamoli soli», per noi significa attraversare un tempo che non sarà breve.
Quindi chi può essere in grado di riempire questo vuoto?
Noi ci siamo. C’è un peggioramento della situazione geopolitica e gli aiuti che scendono. Non abbiamo mai avuto l’ambizione di sostituirci alle agenzie internazionali perché non ne avremmo le possibilità economiche: abbiamo invece molto lavorato sull’andare a supplire là dove non arrivavano i grandi finanziamenti e stando accanto alle popolazioni. E questo continueremo a fare ora che si immagina il ritorno nella Piana di Ninive dei cristiani: la ricostruzione di Qaraqosh è un obiettivo in questa direzione.
Qaraqosh: un simbolo per i cristiani, ma pure simbolo di una convivenza da ricostruire e difendere?
Assolutamente sì, senza però dimenticare la paura della gente. Vi è il desiderio di ritornare, ma pure una profonda insicurezza. Bisogna, come dice qualcuno, «sminare i cuori». Ricostruire non è soltanto ripristinare impianti, tirar su muri, ma soprattutto considerare lo stato d’animo delle persone. Certo, lo sviluppo passa attraverso l’economia, chi ritorna riporta a casa un lavoro, ma «non lasciamoli soli» significa ora sminare i cuori. Come è avvenuto in passato in Burundi e in Ruanda.
Come possiamo fare tutti un passo in questa direzione?
Lo slogan della campagna: «Essere umani con gli esseri umani» vuole ricordare che ciascuno di noi può fare qualcosa. Certo, contribuendo economicamente, ma il secondo passaggio è di informarsi, pretendere che ci raccontino la verità, chiederlo con forza nelle comunità locali e ai media. Terzo, avere la consapevolezza che non stiamo facendo l’impossibile ma che, come dice il Papa «la pace è possibile». Purtroppo a Ginevra sulla Siria ancora non si tratta: ma contro quel tavolo ci sono interessi precisi dei nostri Paesi e, per esempio, dei venditori di armi dei nostri Paesi. Responsabilità storiche per cui indignarsi.