Una delle assistenti curde della Casa di Rmelan, nel Kurdistan siriano, con un piccolo ospite
Vestitini puliti nell’armadio. Ci sono giochi, la tv, i colori, cibo fresco, medicine. In una stanza ci sono le culle dei più piccoli. C’è una bambina con gli occhi azzurri e la pelle chiara, tutti tacciono mentre immaginano sia figlia di qualche combattente europeo. Fajriya, Aria e Souhaila incoraggiano i piccoli a chiamarle «mamma» e quando arriva un visitatore, è una gara a chi si lancia per primo ad abbracciarlo. Alcuni tra gli ultimi arrivati era denutrito, coi pidocchi, bruciature e infezioni. Tra i primi, un bambina con piccoli orecchini d’oro ai lobi. «Mandiamo foto e video in segreto ad una decina di madri che hanno dovuto lasciarli qui ma non si danno pace – spiegano – A qualcuno abbiamo cambiato nome, a tutti insegniamo il curdo ma nulla della loro religione. Un giorno, però, glielo diremo che sono yazidi».
Fuori dal recinto del giardino, c’è il Rojava laico che crede nel Welfare e nei diritti delle donne, e lì vicino il non-luogo del campo di al-Hol in cui vivono i 100mila sfollati della caduta di Baghuz e del Daesh. Ancora oltre, c’è il resto della Siria in fiamme. E c’è la realtà, che per i 41 bambini che ancora non capiscono il male oltre il cortile dell’orfanotrofio di Rmelan, nord-est del Paese, è efferata: i loro padri hanno comprato al mercato delle schiave yazide la loro mamma. Sbaragliato almeno territorialmente il Califfato, a marzo, quelle donne e ragazze rapite nell’agosto del 2014 dai villaggi di Ninive e Sinjar e divenute schiave sessuali, hanno dovuto scegliere se tornare dentro la propria comunità e abbandonare i figli avuti da quelle violenze o restare nei campi in Siria. La “sindrome di Stoccolma” e il lavaggio del cervello ad alcune le farà rimanere a lungo mescolate agli sfollati e alle mogli dei jihadisti arrivate da tutto il mondo. Altre nascondono la loro identità perché il prezzo per tornare a casa è troppo alto. Quelle individuate e salvate – ad oggi 730 a fronte delle 3mila ancora disperse – sono transitate dalla Casa degli yazidi a Qamishli, da dove si cercano i contatti con i parenti rimasti. Ma anche dove viene detto loro che i figli non possono portarli. Spesso viene detto loro che i piccoli saranno dati in adozione a famiglie curdo-siriane per far perdere loro le speranze di riaverli. Alcune sono inconsolabili, altre li lasciano qui senza voltarsi perché vederli ricorda loro ogni violenza. Una ha lasciato due fratellini che non si separano mai. Uno degli ospiti più piccoli è stato curato per una malattia del sangue. I più grandi certe volte parlano della madre con tenerezza. Altri chiedono quando tornerà a prenderli. Quei figli, più di mille e sparsi in altre case e strutture, tutti sotto i cinque anni, non sono considerati yazidi ( è vietato sposarsi con persone non yazide, né ci si può convertire), in più dal 2015 in Iraq la National Identity Card Law, stabilisce che un bambino nato da padre musulmano debba essere registrato come tale.
Il 27 aprile scorso il supremo consiglio religioso ha ceduto alle pressioni del leader più conservatori della comunità: le donne siano accolte ma non i figli di Daesh. «Se decidono di tornare con i loro figli, noi dobbiamo rispettare la loro decisione, dar loro il benvenuto e offrire loro ogni possibile aiuto», sostiene, invece, il premio Nobel Nadia Murad.
Alcune Ong, in assenza di soluzioni, avvallano il sogno che alcune hanno già manifestato: recuperare i figli e lasciare l’Iraq per un Paese che dia loro assistenza. «Noi li curiamo con la speranza che le loro madri tornino a riprenderli», dicono a Rmelan.