L'Alta Corte australiana, l’ultimo grado di giudizio nel Paese, ha ammesso oggi l’appello presentato dal cardinale George Pell contro la condanna a sei anni di carcere per abusi su minori emessa nel dicembre dell’anno scorso dal Tribunale di Melbourne. La sentenza di primo grado, resa pubblica nel febbraio scorso, era stata confermata in agosto dalla Corte Suprema dello Stato di Victoria con il voto di due giudici su tre.
Il porporato, che si è sempre dichiarato innocente e respinto tutte le accuse, aveva scelto in settembre di rivolgersi all’Alta Corte. L’organismo terrà una seduta plenaria in una data non ancora definita.
Secondo i legali di Pell, l'opinione dissenziente di uno dei tre giudici della Corte d'Appello di Victoria, Mark Weinberg, può fornire ragionevoli motivi per revocare la condanna: secondo questo magistrato, l’unica vittima rimasta in vita non è né credibile né affidabile e il verdetto non soddisfa il principio in base al quale una persona può essere condannata solo se le prove ne dimostrano la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.
In una dichiarazione, l'arcivescovo Mark Coleridge, presidente della Conferenza episcopale cattolica australiana, afferma che “tutti gli australiani hanno il diritto di ricorrere in appello contro una sentenza presso l’Alta Corte” e “il cardinale George Pell ha esercitato tale diritto”. L’Alta Corte - osserva il presule - ha stabilito che la sua condanna merita un riesame. Questa decisione “prolungherà quello che è stato un processo lungo e difficile, ma - conclude Coleridge – “possiamo solo sperare che l'appello si svolgerà non appena sarà ragionevolmente possibile” e che la sentenza dell'Alta Corte porterà “chiarezza” per tutti.
La Santa Sede, nel confermare la propria fiducia nella giustizia australiana, prende atto della decisione dell’Alta Corte australiana di accogliere la richiesta di appello presentata dal Card. George Pell, consapevole che il Cardinale ha sempre affermato la propria innocenza. Nell’occasione, la Santa Sede ribadisce, ancora una volta, la propria vicinanza a quanti hanno sofferto a causa degli abusi da parte dei membri del clero.