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Da paladina dei diritti umani in Myanmar a detenuta dai militari con le quali si era alleata. La signora Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace 1991, è la leader del partito che ha ottenuto alle ultime elezioni la maggioranza nel parlamento birmano e di fatto ricopre il ruolo capo del governo (dopo le elezioni dell'8 novembre vinte in modo netto dal suo partito, la Lega nazionale per la democrazia, ndr).
Aung San Suu Kyi è nata nel 19 giugno 1945 a Rangoon, in Birmania (ora Myanmar). Icona della democrazia, Aung San Suu Kyi è uno dei più importanti simboli a livello mondiale della resistenza pacifica contro l’oppressione. A novembre del 2015 nelle prime elezioni considerate libere, il suo partito ha vinto le elezioni in Myanmar, segnando un periodo di svolta fondamentale per il Paese e riponendo nelle sue mani il futuro della ex Birmania.
Il suo ruolo di leader di opposizione, determinante per la fine di oltre mezzo secolo di dittatura militare, ha avuto un'evoluzione che per molti ha l'apparenza di una resa ai generali, ma che soprattutto ne ha messo in dubbio la sua fede democratica. I suoi prolungati silenzi, non aver contestato le violenze e gli abusi commessi nei confronti della minoranza musulmana Rohingya, hanno contribuito a offuscarne l'immagine in Occidente, tanto che il Parlamento Europeo ha voluto nel 2020 prendere le distanze rispetto alla decisione del 1990, quando Strasburgo decise di conferirle il premio Sakharov per la libertà di pensiero.
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Nel dicembre 2019 inoltre era stata chiamata a difendersi davanti alla Corte penale internazionale all'Aja dall'accusa di genocidio contro la minoranza musulmana. Nel suo ruolo istituzionale, Suu Kyi ha dovuto rispondere delle accuse di genocidio formulate dal Tribunale penale dell'Aja proprio contro quei militari che per un ventennio lei stessa ha combattuto, sacrificando molto sul piano personale e più volte correndo gravi rischi.
Paese a maggioranza buddista, il Myanmar ha sempre considerato i Rohingya «bengalesi» provenienti dal Bangladesh e dal 1982 ha negato loro la cittadinanza, rendendoli apolidi e negando loro libertà di movimento e altri diritti fondamentali. Sotto accusa è una campagna militare condotta nel 2017 nello Stato di Rakhine, sulla costa occidentale del Myanmar, che ha costretto 700mila persone a fuggire nel vicino Bangladesh. Si parla di villaggi rasi al suolo e dati alle fiamme, migliaia di morti e stupri sistematici. Sia il governo che i militari hanno sempre respinto le accuse di atrocità. Il premio Nobel Aung San Suu Kyi di fronte ai giudici della Corte di Giustizia internazionale della capitale olandese aveva così difeso l'esercito: «Non si può escludere che i militari abbiano usato una forza sproporzionata. Ma il genocidio non è l'unica ipotesi».