La polizia malese avrebbe arrestato all'aeroporto di Kuala Lumpur una donna, vietnamita o birmana, sospettata di essere coinvolta nell'uccisione di Kim Jong-nam, il fratellastro del leader nordcoreano Kim Jong-un. Sarebbero inoltre ricercati un'altra donna e 4 uomini. Lo riporta l'Oriental Daily. Media giapponesi riferiscono invece che due donne, ritenute le assassine di Kim, sarebbero state uccise da un altro agente segreto.
Di lui si ricorda un improvvido desiderio di visitare Disneyland, in Giappone. Fu “beccato”, nel 2001, con un passaporto falso e poco credibile – domenicano, costato per sua stessa ammissione duemila dollari – all’aeroporto di Tokyo, in compagnia di una donna e di due bambini. Per Kim Jong-nam – secondogenito di Kim Jong-il e fratellastro dell’attuale “lider maximo” nordcoreano Kim Jong-un – fu la pietra tombale che sigillava ermeticamente qualsiasi velleità o ambizione politica. E, lunedì, la vita di Kim Jong-nam si è conclusa allo stesso modo in cui era trascorsa: erratica, semiclandestina e, soprattutto, avvolta nel mistero.
Kim Jong-nam è morto all’aeroporto internazionale di Kuala Lumpur, in Malaysia, uno dei pochi Paesi che intrattengono relazioni diplomatiche con la Nord Corea. Si è sentito male «dopo che qualcuno gli ha premuto qualcosa contro il viso», secondo una testimonianza raccolta dalla Reuters. Più particolareggiata la ricostruzione dall’agenzia di stampa sudcoreana Yonhap. Il 45enne secondogenito del “Caro leader” sarebbe stato avvicinato da due agenti donna, dei servizi segreti di Pyongyang, che gli avrebbero fatto un’iniezione letale. Per la polizia della Malaysia l’arma utilizzata per l’omicidio è dello «spray avvelenato», secondo una versione successiva. Il rampollo decaduto di casa Kim viaggiava con un passaporto falso, nome di Kim Chol.
Il pantheon – capovolto – dei nomi del regime sacrificati sull’altare delle lotte intestine si arricchisce, dunque, di un nuovo nome. Il più importante. Nel 2013 cadde Jang Song-Thaek, zio dei rampolli Kim. Nel 1997, toccò a un cugino, Lee Han-young: venne raggiunto dai sicari del regime a Seul dove era scappato. Chi ha voluto la morte di Kim Jong-nam? E, soprattutto, il 45 enne secondogenito del “Caro leader” – che ebbe tre figli da tre donne diverse – rappresentava una minaccia reale? E per chi? L’uomo viveva lontano dalla Corea del Nord, da cui si era allontanato, si dice, per la paura di essere assassinato. Aveva scelto di stabilirsi nel territorio cinese di Macao. Poi era stato costretto a “scomparire” a Singapore. Una vita raminga, la sua. Più volte aveva fatto sapere che non nutriva ambizioni politiche. Aveva un passato, però. ED ducato in Svizzera, poliglotta, aveva diretto il servizio di contro-spionaggio nordcoreano. E per anni era considerato il delfino del “Caro leader”. La sua grande “colpa”? Per gli analisti, quella di aver pubblicamente criticato il regime nordcoreano, dichiarandosi contrario al meccanismo del trasferimento dinastico del potere nel Paese. I rapporti con l’ingombrante fratello? Praticamente nulli: secondo alcune fonti di stampa, non si sarebbero mai conosciuti.
La spy story, in salsa nordcoreana, “cade” all’indomani dell’ennesima bufera diplomatica che coinvolge la Corea del Nord, dopo il lancio del missile con cui Pyongyang ha voluto “inaugurare”, sabato scorso, l’era Trump. Per Han Tae Song, il nuovo ambasciatore della Corea del Nord presso le Nazioni Unite a Ginevra, il lancio del Musudan modificato – capace di trasportare una testata nucleare finito dopo la traiettoria di 500 chilometri nelle acque del mar del Giappone – è stato un «atto di auto- difesa». Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite la vede, ovviamente, in maniera diversa. Il lancio è stato «una grave violazione degli obblighi internazionali della Corea del Nord». I Paesi membri sono chiamati «a raddoppiare gli sforzi» perché il Paese rispetti le sanzioni economiche.
E se Kim Jong-un ha esultato per il «successo » del lancio, la Cina, da sempre sponsor politico del regime, non ha nascosto la sua ira per i test balistici che «violano le risoluzioni del Consiglio di sicurezza». Il portavoce del ministero degli Esteri, Geng Shuang, ha comunque invitato tutte le parti coinvolte a «esercitare moderazione» e a «evitare provocazioni reciproche». Come la pensa il presidente Usa, Donald Trump è noto: «La Corea del Nord – ha detto lunedì durante la conferenza stampa congiunta alla Casa Bianca con il premier canadese Justin Trudeau – è un grosso problema che noi affronteremo con forza».