giovedì 18 luglio 2024
La "nuova" Silicon Valley sale sul carro di Trump: Musk, Thiel e gli altri sostenitori della "post-democrazia". Con i dem restano i "grandi", da Bezos a Zuckerberg, che per i rep sono il "vecchio"
Elon Musk con Donald Trump

Elon Musk con Donald Trump - Reuters

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Un tempo votavano Clinton, Obama, Biden. Oggi voltano le spalle al mondo dem, alla sinistra liberal che ancora domina culturalmente le due sponde dell’America. Il primo ad abbandonare la West Coast è Elon Musk, il padrone di Tesla e Space X e del social X (ex Twitter), l’uomo più ricco del pianeta, che accorre a colpi di 45 milioni di dollari di donazioni al mese alla corte di Donald Trump. E non più in California, ma nell’amichevole Texas. E non soltanto Musk, ma tanti altri imprenditori della Silicon Valley. Come David Sacks, sudafricano come Musk, ex Ceo di Pay Pal e oggi venture capita-list, la cui conversione ha qualcosa di esemplare: nel 2016 aveva donato 70mila dollari alla campagna di Hillary Clinton e dopo il 6 gennaio 2021 aveva definito The Donald «un uomo finito». Ora, dopo una fugace infatuazione per il governatore della Florida Ron De Santis, corre a braccia aperte sul carro del tycoon graziato dal destino. Il posto si sta affollando di imprenditori Hi-tech. Come Joe Lonsdale, quarantaduenne uomo d'affari, investitore e filantropo americano che ha un patrimonio netto di 425 milioni di dollari o i gemelli Cameron e Tyler Winklevoss, i nemici storici di Mark Zuckerberg (lo accusano di aver rubato loro l’idea di Facebook), che hanno donato due milioni di dollari a Trump e si sono impegnati a votarlo in quanto «pro-Bitcoin, pro-cripto, pro-business». Alla falange californiana si aggiungono due dem pentiti come i giganti del venture capital e delle cripto-valute Marc Andreessen e Ben Horowitz, che hanno deciso di appoggiare Trump e il re degli hedge fund Bill Ackman.

Cosa vogliono, cosa pensano questi transfughi della liberale California? Per quanto ancora avvolta da un velo di incertezza, la sensazione è che questo manipolo di magnati, imprenditori, titolari di presidi digitali capaci di influenzare potentemente l’opinione pubblica stiano approntando una sorta di Post-Democrazia 2.0, un turbocapitalismo sul modello della scuola di Chicago veicolato dall’intelligenza artificiale sfrondando radicalmente l’albero delle rules & regulations, bestia nera del laissez faire caro ai repubblicani. Con una foglia di fico abilmente ostentata: ufficialmente Musk abbandona la California per ragioni etiche, da quando cioè il governatore dem Gavin Newsom ha firmato la prima legge nazionale pro transgender – vigorosamente applaudita dalle organizzazioni Lgbtq – che vieta agli educatori di dire ai genitori se i loro figli chiedono di usare un nome o pronomi diversi, in particolare quelli che potrebbero temere che i loro genitori non sostengano la loro identità. Troppo per Musk («È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso »), ma anche per l’anti-woke Sacks. Ma c’è dell’altro. Perché in questo cantiere post-democratico si muovono ombre e ideologie vecchie (come il Futurismo e il Signore degli Anelli) e nuove, come l’anti-sistema di Peter Thiel, tedesco di origine ma (anche lui…) sudafricano di adozione, gay dichiarato, negazionista climatico, genio matematico, libertario di destra, ammiratore di Tolkien, cofondatore di PayPal, considerato il “cuore di tenebra” del mondo digitale. Un uomo che dall’alto del suo incredibile patrimonio da 4,8 miliardi di dollari predica: «Non credo più che la democrazia sia compatibile con la libertà. L’unica vera disuguaglianza a cui riesco a pensare è quella tra chi è vivo e chi è morto». È lui ad avere “scoperto” J.D. Vance e ad averlo condotto da Trump perché lo perdonasse. «Il ticket Trump-Vance profuma di vittoria», dicono sia Musk che Sacks. Sono amici, entrambi decisi a cambiare le regole delle democrazie. Di quella americana sicuramente.

Per ora all’appello mancano i grandi: Jeff Bezos, Marc Zuckerberg, Larry Page, Tim Cook, ossia Amazon, Meta, Google, Apple. «La vecchia Silicon Valley che ama Biden», motteggiano dal carro trionfale di Trump. Il rischio che finisca per sprofondare insieme a lui già lo si avverte sulle coste capricciose del Pacifico.

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