Un muro tra i quartieri di Aleppo Est durante l’assedio
Sorridente, ben truccata, sale sulla Cittadella di Aleppo per farsi un “selfie” con la sua migliore amica. «Ci siamo ripresi la nostra città», scrive fiera una ventenne sul suo profilo Facebook. Come lei molti siriani si recano sulla storica fortezza medievale, sito classificato patrimonio dell’umanità dell’Unesco, per immortalarsi sorridenti con le dita alzate in segno di vittoria. Per tutta la durata della guerra, l’antico quartier generale di Saladino è stato usato dall’esercito di Assad come postazione di avvistamento, nonché base da cui lanciare cannonate verso i ribelli asserragliati nella parte orientale. Le ferite imposte dai missili e mortai sono ancora evidenti nel panorama urbano, desolante, che si vede dall’alto del forte.
Dieci mesi dopo il cessate il fuoco, che ha visto la fuga massiccia dei gruppi armati anti regime, Aleppo Est sembra ancora una città fantasma. Tonnellate di macerie restano a terra mentre i padroni di quelle invisibili planimetrie, che un tempo erano case, presidiano i frammenti di ciò che resta. Nella speranza che non tutto sia perduto. «Siamo in attesa che ci aiutino a ricostruire – spiega Abdulrahman, un abitante del quartiere Shaar, for- temente bombardato – per il momento il governatorato di Aleppo ci ha dato solo un foglio dove c’è scritto di “Tornare tra un anno”». Intanto sono state rimosse le macerie che ostruivano il passaggio nelle vie principali, perché anche ad Aleppo Est i commercianti hanno ricominciato a vendere le loro mercanzie e le auto, non importa se crivellate o sgangherate, circolano facendo il solito baccano coi clacson.
C’è una gran voglia di ricostruire in città, ma, paradossalmente, manca la manodopera. I ragazzi sono tutti o fuggiti, o assorbiti dall’esercito siriano che li richiama illimitatamente. A Ovest, nella parte filogovernativa, invece, la ricostruzione è cosa molto più semplice, i danni sono decisamente minori. Per alcuni aspetti la vita ha ricominciato a scorrere come prima, tanto da invogliare le persone fuggite a ritornare, nonostante il clima di profonda incertezza. «Mia figlia Laila ha lasciato l’Italia per finire l’Università ad Aleppo – racconta al telefono dalla città liberata Ahmed Bakie, interprete aleppino, che ha vissuto per trent’anni a Roma –. Le manca un solo esame per laurearsi in letteratura inglese, la stessa facoltà che scelsi io», dice compiaciuto.
Nata a Roma nel ’95 Laila ad Aleppo ci si era trasferita già dal 2007, col padre e la madre entrambi siriani con passaporto italiano. «Dopo tanti anni in Italia avevo voglia di tornare nel mio Paese e aprire una piccola impresa tessile – ricorda Ahmed – poi è iniziata la guerra e abbiamo fatto davvero di tutto per rimanere. Mia figlia aveva iniziato l’università e io a Roma non avevo più una casa».
Ma col precipitare della situazione, il personale siriano dell’ambasciata italiana a Damasco, nel 2015, riesce a evacuare la famiglia da Aleppo portandola in Italia. Pochi mesi dopo il cessate il fuoco, avvenuto nel dicembre del 2016, Laila ha fatto ritorno ad Aleppo, mentre suo padre è rimasto per lavorare. Sono tanti i giovani siriani in Europa che vorrebbero tornare per sentirsi partecipi della ricostruzione, ma l’incerto futuro politico del loro Paese fa da angoscioso deterrente. Ahmed invece si sente più utile in Italia, da dove sostiene economicamente la sua famiglia. Spiega come la guerra abbia eroso tutti i suoi risparmi e inghiottito la sua fabbrica di tessuti ad Aleppo «ma ringraziando Dio noi siamo tutti vivi!».
Oggi, alcune fabbriche hanno riaperto i battenti, il costo dell’elettricità resta però un serio ostacolo per la ripresa. C’è ancora tantissima disoccupazione e molte donne si prostituiscono segretamente per sopravvivere. «Quando una donna è circondata da uomini che non riescono a portare il pane a casa – aggiunge Ahmed interpretando i cambiamenti sociali nella sua città natale – si trova costretta a vendere il suo corpo. E non rispetta più le figure patriarcali». La povertà dilagante spinge inoltre le famiglie a far sposare le ragazzine il prima possibile, anche a 13 anni. «Le madri che hanno perso i propri figli durante la guerra – riprende l’aleppino – sembrano smaniose di diventare nonne».
Per i bambini che invece la guerra ce l’hanno ancora negli occhi, oggi la priorità assoluta è tornare a scuola, nonostante la penuria di strutture: secondo dati Unicef, solo 1.000 dei 4.000 istituti sono funzionanti. Le scuole agibili della parte occidentale accolgono anche i bambini della parte Est. «Il divario tra alunni dell’est e dell’ovest di Aleppo è incolmabile – racconta Riham al Hamoud, maestra elementare – i bambini che hanno vissuto sotto le aree controllate dai ribelli, non sono andati a scuola o hanno ricevuto un’educazione religiosa». Ai piccoli è stato fatto il lavaggio del cervello, alcuni sono irrequieti e violenti. «In classe non gli permettiamo di parlare di “quelle cose” – taglia corto la maestra – il passato è passato». Ad Aleppo Ovest, quindi, riconciliazione sembra far rima con rimozione. Dimenticare è più semplice che perdonare. Sull’altro fronte c’è chi esalta il regime, la «liberazione».
Chi ricorda cosa è stato l’assedio di una metropoli spaccata a metà, se non in quattro zone. «Il cessate il fuoco non può essere però confuso con la pace», ha denunciato, due mesi fa, Ruba Mhaissen, attivista siro-libanese per i diritti civili all’Assemblea generale dell’Onu. «Le richieste di libertà – ha detto in un suo recente articolo sottolineando che nel disinteresse di Ue e Usa la Siria venga consegnata a Russia e Iran – non possono essere barattate con la promessa di un po’ di stabilità mentre quasi un milione di siriani vivono ancora sotto assedio». Recentemente la diffusione di una foto di una bambina denutrita nella periferia di Damasco ha suscitato pena e indignazione nei media. «Ma Assad è ancora lì», ha concluso l’attivita. Una prospettiva che non temono certo i siriani dei selfie in Cittadella. La democrazia per loro sembra poter attendere, fintanto che le armi tacciono.