sabato 11 dicembre 2021
La riapertura delle aule per le studentesse sopra i 14 anni è durata meno di una settimana, tranne che in alcune province del Nord. «E il prossimo anno il regime ci fornirà libri di testo riscritti»
Una classe di bambine ad Herat

Una classe di bambine ad Herat - Web

COMMENTA E CONDIVIDI

La riapertura c’è stata, ma è durata poco, tre giorni appena, nemmeno il tempo di sedersi al proprio banco e mettersi a studiare. Lo spiraglio che sembrava intravvedersi nelle scuole femminili di Herat si è già chiuso, è archiviato, e se da altre province giunge qualche racconto di un ritorno in classe, in Afghanistan le adolescenti rispedite a casa e lì sigillate senza più la possibilità di studiare, restano la maggioranza. Così, nella Giornata mondiale dei diritti umani, non si può non pensare a loro, diventate – loro malgrado – simbolo di opportunità, futuro e (appunto) diritti andati in frantumi.
A un mese dalla conquista del potere in Afghanistan, il 18 settembre i taleban avevano riaperto le scuole solo per gli studenti maschi e le bambine più piccole, sotto i 12 anni. Poi, con il passare dei mesi, si sono rincorsi annunci e voci sulla riapertura più o meno formale di classi per ragazze dai 13 anni in su, in sette delle trentaquattro province del Paese. «È accaduto solo per pochi giorni e per decisione della gente del posto, non perché i taleban avessero accordato il loro permesso» ci racconta Sonita A., docente di chimica, inglese e informatica a Herat. Le sue studentesse hanno tra i 14 e i 18 anni. «La scuola ha riaperto il 6 novembre e tre giorni dopo i taleban l’avevano già chiusa». Si sarebbe trattato di una forzatura, un tentativo del sindacato degli insegnanti e del consiglio di zona di capire che margine di azione potessero esercitare. Evidentemente, limitato.
Chiediamo a Sonita A. se sia stata usata la violenza: «Non quella fisica, no, ma richiudere tutto è stata una grande violenza contro le ragazze. Continuano a chiedersi per quale motivo i fratelli possono andare a lezione e loro no. Sono in apprensione per il futuro». Con grande cautela e con una certa ansia, sono invece tornate a mettere piede a scuola le ragazze di alcune province settentrionali, là dove tradizionalmente le donne hanno ricoperto ruoli più rilevanti e attivi rispetto alle connazionali del sud. È il caso di Mazar-i-Sharif, capoluogo del Balkh, ma anche di Kunduz e delle province di Sar-e-Pul e Jawzjan, dove le riaperture scolastiche sembra siano avvenute con l’approvazione dei funzionari del governo locale dei taleban.
A Mazar-i-Sharif, dal 7 dicembre sono cominciate le vacanze invernali, ma prima della pausa le ragazze sedevano nelle aule: ce lo conferma Kobra E., docente di inglese, impegnata per metà giornata in una scuola privata e per l’altra metà in una pubblica come volontaria, per sostituire chi era di ruolo e non si è più presentato a scuola. «Molti insegnanti, infatti, hanno lasciato il Paese», spiega al telefono. «All’inizio ho avuto timore di tornare a insegnare inglese, adesso è diventato quasi normale, ma tra le nostre studentesse, quando gira voce che i taleban stiano arrivando a scuola, c’è chi mi chiede di rientrare a casa. Al momento, non abbiamo modificato i programmi d’insegnamento, ma i taleban ci hanno comunicato che il prossimo anno ci forniranno libri di testo diversi». C’è poi il capitolo delle risorse economiche per far proseguire le attività. Sonita A. ci racconta di non essere pagata da quattro mesi e di essere l’unica a portare uno stipendio in famiglia. A lei spetta mantenere le sorelle e un fratello. A conclusione di un report pubblicato a ottobre, Amnesty International sollecitava la comunità internazionale a garantire finanziamenti adeguati alle scuole afghane, attraverso agenzie Onu o Ong.
In caso contrario, «il diritto all’istruzione potrebbe essere negato a milioni di studenti». Eppure, si tratta di «un diritto umano fondamentale, che i taleban – in quanto autorità de facto – hanno il dovere di tutelare». Esiste, infine, anche una questione di motivazione: sapendo di essere tenute fuori dalla maggior parte dei settori lavorativi, come dal governo e dai vertici dell’amministrazione pubblica, cioè avendo ricevuto, forte e chiaro, il messaggio di non illudersi e che il loro ruolo nella società rimarrà circoscritto, manca lo stimolo a mettersi sui libri. «Per questo il mio obiettivo è spronare queste ragazze, affinché proseguano la loro istruzione», dice ancora Kobra.
Continuare a studiare da casa, da sole, con poche prospettive future e nessun esame da sostenere, però, è come scalare una montagna: «Molte delle mie studentesse mi hanno telefonato per chiedere quando ricominceranno le lezioni» conclude Sonita . «Piangono spesso, e mi chiedono cos’hanno fatto di male, quale sarebbe il loro peccato. Io, da parte mia, non so davvero cosa rispondere».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: