domenica 1 luglio 2018
La città che ha visto l'inizio della rivolta nel 2011 cerca normalità. La piaga della prostituzione minorile
La distruzione della guerra negli edifici della città di Homs

La distruzione della guerra negli edifici della città di Homs

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Tutto tranquillo, ora? Pare di sì. Come in gran parte della Siria, ormai, anche a Homs la guerra è finita e la fase più crudele della crisi sembra superata. Ma non bisogna dimenticare che Homs è famosa, nel Paese, perché da tempo immemore è sede della Festa dei pazzi, secondo una tradizione che affonda le radici all’epoca della conquista romana, quando gli abitanti presero a fingere stravaganza e follia per tenere alla larga gli occupanti. E che ulteriore fama si è procurata con il titolo di 'capitale della rivoluzione', perché proprio qui, nella primavera del 2011, si svolsero le più massicce manifestazioni contro il governo di Bashar al Assad, con migliaia e migliaia di persone in strada, scontri pesanti appena fuori città tra l’esercito regolare e le milizie dell’Esercito libero siriano e di al-Nusra e un assedio durato anni.

Quindi bisogna tastare il polso di Homs con accortezza, vedendo fino a che punto esso indica il battito del Paese, oggi impegnato a combattere una guerra che non è finita e insieme a vivere un dopoguerra che è già cominciato. Per farlo, bisogna visitare almeno due luoghi fondamentali. Il primo è la Piazza dell’Orologio, il punto di raccolta delle grandi manifestazioni del 2011. C’è una Piazza dell’Orologio in moltissime città del Medio Oriente, ma poche sono brutte come quella di Homs, uno slargo calcinato dal sole e dalla luce estiva, circondato dai quartieri che furono occupati dagli islamisti, dove ancora nette sono le cicatrici inferte dalla lunga battaglia che infine portò alla vittoria dell’esercito di Assad.

È un luogo, questo, in cui in un modo o nell’altro si è fatta la storia. Ma come? E per conto di chi? Ho raccolto i ricordi e le testimonianze di persone che non hanno voglia né motivo per schierarsi. Raccontano che all’epoca dei cortei circolava un preciso tariffario, diffuso soprattutto tra i ragazzi. Vai al corteo e fai massa? 500 lire siriane, allora pari a un dollaro. Vai e gridi slogan o bruci un ritratto di Assad? 5000 lire, dieci dollari. E via così, a salire, con gettoni più importanti per chi era disposto a tirare pietre o lanciare molotov. Un ingaggio attraente per gli studenti squattrinati o i ragazzi senza lavoro, politicizzati o meno che fossero. Il problema è che le manifestazioni erano filmate e quei ragazzi (quelli almeno che non si sono aggregati alle milizie islamiste o sono scappati all’estero) sono adesso quasi tutti in galera. E di certo non sono in vacanza. Con loro, in altre celle, molte donne, a suo tempo magari costrette dai mariti a condividere la protesta politica. In fondo ai cortei, racconta chi c’era, marciavano sempre gruppetti di uomini armati, incaricati di controllare che chi era stato ingaggiato alle tariffe di cui sopra facesse la propria parte e si guadagnasse le lire.

Per le poche organizzazioni che hanno il permesso di lavorare nelle carceri l’impegno è due volte gravoso. Perché anche lì, come in tutta la Siria, il 'persecutore' di oggi è spesso il 'perseguitato' di ieri. E la guardia carceraria dura e arrabbiata che fa vedere i sorci verdi a un ragazzo magari è il padre che ha perso la figlia in un attentato (per esempio quello kamikaze che il 1 ottobre uccise trenta bambini all’uscita di una scuola elementare del quartiere alawita) o il figlio partito militare. Allo stesso modo, gli scontri, le battaglie, le ritirate, le fughe e i fondamentalismi di tutti i generi hanno sconquassato le famiglie, lasciando centinaia di donne sole e disperate e migliaia di bambini senza padre o senza genitori. Così Homs vive, in questo dopoguerra tanto atteso, un fenomeno terribile e nuovo: un mercato della prostituzione fiorito all’improvviso che coinvolge, purtroppo, anche ragazzi e ragazzini. A dimostrazione del fatto che le macerie sono abbondanti nei quartieri ma ancor più spaventose, dopo questi sette anni allucinanti, nei cuori delle persone. L’altro luogo che bisogna visitare è il convento dei gesuiti del quartiere di Bustan al-Diwan, nel cuore della vecchia Homs. Qui, il 7 aprile del 2014, fu ucciso a sangue freddo padre Frans van Lugt, olandese, 75 anni, una vita passata in Medio Oriente, dal 1976 in Siria, dal 1993 a Homs. Psicoterapeuta di formazione, il gesuita aveva a lungo lavorato in un centro per l’accoglienza e la cura dei disabili mentali. E quando, nel 2011, scoppiò la "guerra per Homs", rifiutò di andarsene e per anni rimase l’unico straniero e l’unico religioso nei quartieri controllati dagli islamisti e assediati dall’esercito, dove la gente sopravvisse, in certe settimane, cuocendo e mangiando l’erba che cresceva sul ciglio delle strade.

I racconti dei suoi eroici atti di carità in aiuto alle persone travolte dalla guerra, anziani e malati in primo luogo, sono innumerevoli. Ma è la sua morte, per paradosso, a dirci molte cose della Siria di oggi. Padre Frans fu ucciso il 7 aprile del 2014, pochi giorni prima che le truppe di Assad riprendessero il controllo totale della città, compreso il quartiere Bustan al Diwan. Nel convento con lui, quel giorno, c’era un’altra persona, che lo sentì aprire la porta e salutare con affetto chi aveva bussato. Quindi una persona nota, forse addirittura un amico. Il quale, pochi minuti dopo, costrinse il religioso a sedersi su una sedia, sotto gli alberi del piccolo chiostro, e gli sparò negli occhi.

Un assassinio programmato, quindi. Padre Frans doveva morire perché, essendo rimasto durante l’assedio e avendo un rapporto vero e profondo con la gente, sapeva tutto di tutti. Chi aveva sobillato. Chi aveva le armi, chi le aveva usate, chi aveva commesso le cose peggiori e chi le aveva subite. Chi dalla guerra aveva tratto profitto. Chi pensava che cosa. Così, nel timore assurdo che potesse svelare i segreti del quartiere ai soldati in arrivo, il gesuita fu ucciso in quel modo simbolico. Pallottole negli occhi: hai visto ma non parlerai.

Da allora padre Frans riposa sotto gli stessi albero che lo videro morire. E la gente che gli voleva bene visita la sua tomba, si ferma, prega, chiacchiera, prende il caffè o il tè come se lui non se ne fosse mai andato. Bustan al-Diwan, come gli altri quartieri un tempo assediati, oggi è tranquillo. Ma gli assassini di padre Frans non sono mai stati trovati. Sono lì, mescolati agli altri abitanti, entrano ed escono dai negozi, passano in strada, forse ogni tanto fanno anche una visita al convento. Uguali a tanti altri che si erano schierati con gli islamisti di al-Nusra o i ribelli dell’Esercito libero siriano. Si sono convertiti alla pace. Hanno riscoperto la fedeltà ad Assad. O forse aspettano solo un’altra occasione. Il futuro ce lo dirà.

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