lunedì 27 ottobre 2014
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Avesse detto che no, non era vero che l’uomo da lei ucciso anni fa stava cercando di violentarla, Reyhaneh Jabbari sarebbe probabilmente ancora viva. Era questa la condizione posta dai genitori dell’improbabile “vittima” per acconsentire alla grazia. Perché l’onore di un morto – per quanto fasullo – conta più di una vita e del senso di giustizia. Ma Reyhaneh si era sempre rifiutata di acconsentire, spiegando di essersi semplicemente difesa. E senza l’accordo della famiglia dell’uomo ucciso, nessun giudice a Teheran si è mosso per impedire l’impiccagione della giovane iraniana.Non ha contato che il processo, da subito, sia apparso falsato e pesantemente manipolato. Neppure hanno influito le pressioni internazionali per quella che sembrava un’oscena vendetta contro una donna che aveva resistito all’abuso. Non una parola dalla Guida suprema, l’ayatollah Khamenei, di solito così enfatico nel sottolineare la misericordia di Dio. Una rigidità apparentemente inspiegabile, proprio mentre l’Iran cerca da tempo un laborioso compromesso sul nucleare e il suo presidente, Hassan Rohani, è impegnato a far dimenticare in Occidente gli eccessi radicali del suo predecessore, Mahmud Ahmadinejad. Durezza solo apparentemente incomprensibile, tuttavia. Perché la verità, in un Paese complesso e sfaccettato come la Repubblica islamica dell’Iran, è sempre più sottile e nascosta.Come già avvenuto ai tempi dello sfortunato tentativo riformista del presidente Mohammad Khatami che, fra il 1997 e il 2005, provò inutilmente a liberalizzare dall’interno il regime, la magistratura iraniana è lo strumento preferito dai conservatori per evitare ogni apertura interna che incrini la morsa sulla popolazione. Allora i magistrati si scagliarono – spalleggiati dalla “guida” e dai pasdaran – contro giornalisti, intellettuali, politici riformisti e studenti per sottolineare quanto inutili fossero i tentativi di liberalizzazione del Paese. Oggi, con il più prudente e scaltro Rohani, le continue esecuzioni e le condanne servono a lanciare due messaggi, uno all’interno e uno all’esterno del Paese.Il primo, diretto proprio al presidente e a quanti lo sostengono, rimarca i confini invalicabili del suo mandato. Khamenei ha permesso l’elezione di Rohani lo scorso anno – senza manipolare i risultati elettorali – perché questo religioso abile e moderato doveva ottenere un accordo sul nucleare con l’Occidente ed evitare lo sfacelo economico. Dopo i disastri causati dagli ultraradicali, Teheran doveva trattare; per farlo c’era bisogno di un personaggio come Rohani, che ben conosce l’Occidente e che è da noi rispettato. Ma la sua libertà d’azione finisce qua. Khamenei non ha mancato di ricordarglielo ripetutamente.Non si illuda il governo “riformista” di avventurarsi nuovamente sul terreno minato delle aperture politiche e sociali, come aveva tentato Khatami. E non si illudano neppure gli iraniani, in particolare i giovani e le donne, che sempre meno sopportano i limiti e le angherie dei conservatori. Il secondo messaggio di questa esecuzione, che così tanto offende il senso di giustizia, è invece diretto all’esterno. La Repubblica islamica sarà pure piegata economicamente dalle sanzioni, il suo presidente ha sì il mandato di cercare un accordo sul nucleare, mentre per convenienza geopolitica si possono avere convergenze ufficiose nella lotta contro il fanatismo sunnita in Siria e in Iraq, ma non si illuda l’Occidente che Teheran sia disposta a concessioni in altri campi. Il suo regime resta alternativo al secolarismo occidentale e strettamente legato alle colonne ideologiche della propria retorica: dal rifiuto di Israele, al velo femminile e all’applicazione dogmatica della sharia, pene corporali comprese. Se tutto ciò mette in difficoltà le voci dei moderati iraniani e scredita l’immagine di Rohani, ancora meglio. La vita stroncata di una giovane donna, vittima due volte abusata – da un uomo prima, da un sistema ingiusto poi – è giudicato un prezzo semplicemente irrilevante. Ma non è così.
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