mercoledì 3 luglio 2024
Oggi troppi genitori sono emotivi e iper-protettivi. I ragazzi lo percepiscono e rischiano di adultizzarsi precocemente. Il risultato? Rabbia e silenzio. L'analisi della pedagogista Barbara Baffetti
"Questo ai miei non lo dico. Non voglio farli preoccupare"

Foto Icp

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Per costruire la propria identità, un adolescente ha bisogno di incontrare le differenze. Per mettere a fuoco il suo Io, ha bisogno anche del Tu, la reciprocità, e del Noi, la rete di relazioni. Di ragazzi travolti dalla piena delle emozioni della crescita ne incontra tanti, la pedagogista Barbara Baffetti, che da anni porta avanti un progetto sull’Affettività e il Rispetto nelle scuole di ogni ordine e grado. In quelle preziose ore di sportello raccoglie i dubbi, le domande scomode, i dolori e le confessioni che molto spesso gli adolescenti preferiscono fare all’esterno, piuttosto che nel cerchio dei legami familiari. Di queste storie è costellato il suo ultimo libro, “Educare alla differenza”, edito da San Paolo, in cui il mondo adulto è interpellato, a sua volta, a ripensarsi. Per non “patologizzare” ma neanche “banalizzare” il periodo dell’adolescenza. Per usare una felice immagine di Amoris Laetitia, servono “adulti-fiaccola”, capaci di “affiancarsi e illuminare un cammino rispettando il passo, accettando di mescolarsi con altri che sono lungo quella stessa strada, senza spaventarsi delle tenebre intorno”.

Dottoressa, nel suo libro ricorrono storie di ragazze e ragazzi che dicono “Questo non lo dico ai miei perché non voglio farli preoccupare”. Anche in passato non si dicevano le cose ai grandi, ma era per farla franca, per essere più liberi, per evitare le punizioni. Davvero oggi noi adulti sembriamo tanto fragili?

In modo esplicito e palpabile, oppure più sottile e inconfessato, c’è oggi in moltissimi ragazzi il timore di dare un carico di preoccupazione troppo grande ai genitori. Ci sono madri e padri affettuosi ma anche iper protettivi, che danno un’immagine di emotività a volte incontrollata, senza contenimenti. Questo i ragazzi lo percepiscono, e in alcuni casi si trovano precocemente adultizzati, ma poi ovviamente non sono capaci di farsi carico dei problemi degli adulti, di conseguenza reagiscono o con la rabbia o con un adattamento fatto di silenzi e autarchia.



Come possiamo interrompere questo cortocircuito? Come possiamo mostrare che abbiamo le spalle abbastanza larghe per accogliere anche le loro fatiche?

In genere i genitori molto emotivi stanno vivendo una certa solitudine educativa, che magari è specchio di una solitudine della famiglia nella comunità, perché hanno pochi contatti e relazioni all’esterno, perché il dialogo con la scuola è scarso e diffidente. Allora mettersi in maggiore ascolto del proprio figlio e sforzarsi di uscire dall’isolamento educativo sono strumenti preziosi per avere maggiori risorse, e per conoscere prospettive differenti su quell’adolescente che crediamo di conoscere.

Il suo libro affronta, tra le altre cose, un fenomeno diffuso e sconcertante: il distacco del corpo dalla costruzione dell’identità. Ragazzi che percepiscono il proprio corpo più come uno strumento o una funzione, che non come costitutivo del loro sé. Da qui l’idea di poter costruire versioni differenti di sé stessi sui social oppure, quando si sperimenta una relazione, l’idea di poter valicare senza rispetto i confini del corpo altrui. Ma come è possibile? Quando è cominciato tutto questo?

In molti, durante le conferenze, mi domandano se è stato il digitale che ha creato questa frattura, “astraendo” di fatto il corpo e rimuovendo la fatica (evolutivamente necessaria) legata all’accettazione di sé e del prossimo, l’altro da sé. Direi che il digitale ha in qualche modo amplificato una tendenza che era già in atto, e che nel dopo pandemia è esplosa: il corpo è fortemente attenzionato dai ragazzi, ma non è riconosciuto come parte costituente dell’identità. E questa è una deriva delicatissima, perché se il corpo non è acquisito come parte integrante della propria persona, non viene riconosciuta neanche la dignità del corpo altrui.

E’ il risultato pratico della cultura del “puoi essere ciò che vuoi”?

“Puoi essere ciò che vuoi” è tutto ma soprattutto niente: se non hai alcuna coordinata, non sai come muoverti. Però il corpo esiste, manda i suoi segnali, ma per molti ragazzi sono difficili da capire, ancor più da accettare e integrare dentro di sé. Amare il proprio corpo, rispettarlo, accettarne i difetti significa costruire la capacità di stare di fronte ai fallimenti.

Cosa che richiama alla mente, purtroppo, i tanti giovani maschi incapaci di accettare un “no” oppure un “ti lascio”.

Esattamente, un fenomeno che ha diversi gradi di drammaticità, fino alla cronaca nera, e che vede le ragazze maggiormente esposte alla violenza. Ma, restando in quadro d’osservazione più fisiologico, ci tengo a dire che la maggior parte dei ragazzi è aperta alla bellezza della relazione, ed è capace di rispettarla. In molti di loro c’è il desiderio grande di trovare un amore bello, speciale. Il fatto è che quando la storia finisce la vivono malissimo, fanno fatica ad accettarlo, quasi come se non avessero mai contemplato questa possibilità. Sia ragazzi che ragazze, in questi casi, sperimentano una grande sofferenza.

Come possiamo aiutarli?

Viviamo un tempo in cui siamo chiamati a essere efficienti in tutto: nello studio, nel lavoro, nell’immagine esteriore. Questa efficienza è ora entrata anche nelle relazioni: se falliscono, inondano di fallimento anche la persona. È importante contrastare questa deriva: come genitori dobbiamo cominciare a farlo partendo da noi stessi e dai nostri comportamenti. A volte infatti non c’è molta coerenza tra le raccomandazioni che si fanno ai figli e il modo in cui si agisce nel quotidiano; a volte si fissano obiettivi in astratto senza prestare ascolto alla loro vocazione, senza contemplare la possibilità di un ritardo, una battuta d’arresto, una sconfitta.

Il suo libro si chiude con una storia delicata: una giovane ragazza che viene allo sportello scolastico e le racconta di amare un’altra ragazza. Non l’ha ancora detto ai genitori e chiede: “E allora, la mia vita vale lo stesso qualcosa?”

Questo è un tema importante, perché oggi si pensa universalmente che tra i giovani l’omosessualità sia una questione completamente sdoganata: posso dire, invece, che nonostante quello che vogliono mostrarci le serie tv, nel periodo dell’adolescenza la questione è ancora molto complessa, e non viene espressa a cuor leggero. La preoccupazione di questa ragazza riguardava, in particolare, il fatto che il suo orientamento non diventasse “la sola cosa” capace di catalizzare le attenzioni (e le preoccupazioni) dei genitori. Voleva dire che restava un mondo, dentro di lei, di progetti, di affetti, di speranze che non potevano essere appiattiti nel solo aspetto dell’omosessualità. Questo è un messaggio importante per noi adulti: stiamo attenti a focalizzarci solo su una parte, convinti che sia il tutto. Qualunque sia il loro orientamento sessuale, fanno fatica a capire l’amore: sforziamoci allora di accogliere le rivelazioni, anche quelle più dure, e proviamo ad accompagnarli a scoprire tutta la luce che c’è nella loro vita.

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