martedì 25 marzo 2025
Nel 2022 l'aggravarsi della fibrosi del midollo osseo costrinse il pastore della diocesi di Brescia al trapianto. «Nella fragilità impari l'umiltà. Ricordo con riconoscenza la telefonata di Francesco»
Il vescovo di Brescia, Pierantonio Tremolada

Il vescovo di Brescia, Pierantonio Tremolada

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«Nella malattia capisci ancora meglio e davvero che non siamo i padroni di noi stessi. Nell’esperienza della fragilità, della debolezza estrema, della malattia grave che mette a rischio la tua vita, per non cadere nello smarrimento sei chiamato a crescere nella pazienza, nell’umiltà, nella fiducia in Colui che guida le nostre esistenze. Quella fiducia è l’anima della nostra fede. Con quella fiducia, come pastore chiamato a servire la Chiesa, metti a disposizione la tua vita per il tempo che il Signore vorrà. E fu un invito a vivere la prova con fiducia e speranza quello che mi fece papa Francesco quando, il 16 ottobre 2022, mi chiamò al telefono, a quasi tre mesi dal trapianto del midollo osseo che avevo ricevuto il 20 luglio all’ospedale San Gerardo di Monza, reso necessario per l’aggravarsi di una patologia, la fibrosi del midollo, che mi affliggeva da tempo. Fu una telefonata inattesa: mi fece molto piacere, la ricordo con profonda riconoscenza». Così il vescovo di Brescia, Pierantonio Tremolada, rievoca il cammino vissuto in questi ultimi anni, segnati dalla malattia, da un trapianto, quindi da un percorso di guarigione che l’ha riportato – nel gennaio 2023 – in diocesi, per riprendere a tutti gli effetti il suo ministero. Un cammino che, oggi, può aiutare a leggere ciò che sta affrontando e attende un altro vescovo – il Vescovo di Roma – anch’egli nella prova della malattia.

Che cosa significa vivere l’esperienza di una malattia grave? E cosa significa viverla da vescovo?

«Ho capito una grande verità: come pastori siamo chiamati a mettere a disposizione la nostra vita per il tempo che il Signore vorrà. Il nostro servizio – vale per il Papa come per il vescovo e ogni altra persona che abbia responsabilità nella Chiesa – ha sempre un limite temporale. Questo lo capisci meglio quando hai consapevolezza che quel tempo potrebbe concludersi presto. E questo ti dà pace. Ti ricorda che non siamo indispensabili, ma solo servitori inutili: consapevoli che quello che diamo e offriamo si colloca in una prospettiva di grazia più grande».

Quando seppe della malattia, eccellenza, come reagì? Che cosa provò? E come la affronto?

«La malattia ti mette di fronte a due momenti distinti. Il primo, il più scioccante, è quando ne ricevi notizia e prendi coscienza che ti attende una situazione grave, con conseguenze serie, e un cammino dall’esito incerto. Il secondo momento è quando cominci a “vivere” la malattia e il suo aggravarsi – nel mio caso, con il ricovero al San Gerardo, il trapianto preceduto dalla chemioterapia per abbattere il midollo osseo malato… Qui entra in gioco il dolore fisico, la difficoltà a sopportarlo, la percezione del corpo sempre più debilitato, senza energie… E al dolore si affianca l’esperienza della fragilità e della debolezza: non puoi più fare le cose di prima e disporre di te in autonomia. Devi affidarti. Imparare a vivere il limite, che è la regola della nostra esistenza. E sei chiamato a crescere nella pazienza, nell’umiltà, nella fiducia. Contro la malattia si deve lottare: e questo riguarda sia il corpo sia lo spirito».

Che cosa l’ha aiutata in questa lotta? In chi e in cosa ha trovato sostegno?

«Nell’Angelus preparato per domenica scorsa – quella della sua dimissione dal Gemelli – il Papa ha parlato della “pazienza del Signore”, che nel tempo del ricovero ha sperimentato “nella premura instancabile dei medici e degli operatori sanitari, così come nelle attenzioni e nelle speranze dei familiari degli ammalati”. Ecco: posso dirlo anch’io. Nella fragilità e nella debolezza, comprendi ancora meglio il valore delle persone che hai intorno, a partire da quelle più vicine: come i medici e gli infermieri del San Gerardo, straordinari per professionalità e umanità. Ma hai anche la percezione interiore della presenza e della vicinanza di tutte quelle persone a te ignote, fisicamente lontane, ma che ti pensano, pregano per te… Anche questo fa bene al malato. E che gioia, al rientro in diocesi, incontrare persone sconosciute che mi dicono: “Abbiamo pregato per lei!”».

La domenica di papa Francesco ci consegna anche due gesti: il suo grazie alla signora dei fiori gialli e la sosta a Santa Maria Maggiore…

«Il Papa ha voluto presentarsi al balcone del Gemelli nella sua fragilità. E il suo saluto a quella donna, individuata in mezzo alla folla, testimonia quella tenerezza di cui tante volte ci ha parlato. Riguardo a Santa Maria Maggiore, anch’io ho sentito il bisogno di dire “grazie” a Maria, per la sua vicinanza che non è mai mancata. E, quando mi è stato possibile, sono andato in pellegrinaggio a Pompei».

Ha altri “grazie” da condividere?

«Sono infinitamente riconoscente al donatore del midollo osseo, del quale non potrò mai sapere il nome e il volto. Mi resterà per sempre sconosciuto. Nessuno dei miei familiari era compatibile: perciò ci siamo dovuti rivolgere al database mondiale per trovare un donatore adatto. Nell’attesa di una risposta positiva, vivi come sospeso, nella trepidazione che arrivi un “lieto annuncio”. Lo stesso è avvenuto dopo il trapianto, quando incombeva il rischio del rigetto e si trattava di capire se avrebbe dato l’esito sperato. Lì capisci com’è vero che non siamo padroni di noi stessi. E come è difficile vivere nella prova, nella sofferenza e nell’attesa del “lieto annuncio” senza imparare quell’umile fiducia che è l’anima della nostra fede. Guardi al cammino fatto, cerchi il senso di quello che hai vissuto, e capisci come ogni passaggio è stato importante, anzi: provvidenziale».

Com’è stato il rientro in diocesi?

«Ho avuto la percezione che tutti fossero contenti della mia presenza: ma nel contempo, all’inizio, mi raccomandavano di non eccedere negli impegni, di custodire le energie, di non preoccuparmi troppo per quello che dovevo o potevo fare davvero. È come se mi avessero detto: “Siamo felici non per quello che fai, ma perché ci sei, perché sei nuovamente qui con noi”. E ne sono stato felice anch’io».

E ora come sta, eccellenza?

«Bene, ringraziando il Signore. I controlli vanno bene, le energie ci sono. E posso tornare a Roma dove in questi giorni si svolge il pellegrinaggio diocesano del Giubileo, a poco più di una settimana dal pellegrinaggio degli adolescenti che abbiamo vissuto con duemila ragazzi».


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