sabato 20 ottobre 2012
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L’Ottobre missionario rappresenta il momento privilegiato per fare memoria dell’impegno ad gentes e la Giornata missionaria mondiale (Gmm) costituisce l’apice di un cammino di fede che trova nell’Eucarestia la sua sorgente inesauribile di Salvezza. La posta in gioco è alta se si considera che a duemila anni dalla venuta del Redentore «la messe è molta – parafrasando le parole di Gesù nel Vangelo di Luca - ma gli operai sono pochi!» (10,2). La fede, d’altronde, quella edificante e verace dei santi, non è tanto una questione aritmetica ma di qualità della vita. Basterebbe che un manipolo di credenti, davvero convinti come i dodici apostoli, s’impegnassero ad annunciare e testimoniare il Verbo, in quanto Parola forte di Dio, che inevitabilmente s’innescherebbero quei cambiamenti di cui la società postmoderna ha davvero urgente bisogno. E per quanto sia evidente il deficit di testimonianza nei comportamenti più quotidiani, in parte per l’immobilismo di alcune tradizionali agenzie educative – dalla scuola alla famiglia, passando per le nostre stesse comunità cristiane – vi è davvero un bisogno impellente di promuovere un sussulto di missionarietà, nella consapevolezza che essa rappresenta l’antidoto nei confronti dei processi devastanti della mondializzazione, nelle sue molteplici articolazioni, che penalizzano fortemente l’uomo e dunque lo stesso dettato evangelico. Ecco perché occorre riflettere sull’evangelizzazione nel segno del Concilio Vaticano II, vivendo intensamente l’Anno della fede che è iniziato l’11 ottobre scorso, a 50 anni dall’apertura dell’assise conciliare. Come ha scritto nel tradizionale messaggio per la Gmm Benedetto XVI, si trattò di un evento ecclesiale che vide la «partecipazione dei vescovi cattolici provenienti da ogni angolo della terra, (…) un segno luminoso dell’universalità della Chiesa, accogliendo, per la prima volta, un così alto numero di Padri conciliari provenienti dall’Asia, dall’Africa, dall’America Latina e dall’Oceania. Vescovi missionari e vescovi autoctoni, pastori di comunità sparse fra popolazioni non cristiane, che portavano nell’assise conciliare l’immagine di una Chiesa presente in tutti i continenti e che si facevano interpreti delle complesse realtà dell’allora cosiddetto Terzo Mondo». Sono queste le ragioni che hanno indirizzato Missio, in quanto organismo pastorale della Cei (Conferenza episcopale italiana), a scegliere, come slogan per la Gmm 2012 le parole dell’apostolo Paolo: «Ho creduto perciò ho parlato» (2 Cor 4,13). Il concetto di fondo è che la Chiesa ha ragione di esistere solo se vive la dimensione missionaria, come comunicazione di fede rivolta a un mondo lacerato da guerre e sopraffazioni, dove spesso l’egoismo sembra prendere il sopravvento. La forza del cristianesimo, nei secoli, è stata la capacità di molti credenti di passare dalle buone intenzioni alla testimonianza fattiva. Senza l’impegno per i poveri, per la giustizia, per la solidarietà, per la salvaguardia del creato, la missione è tradita e vilipesa. Pertanto, oggi, più che mai, la Parola deve uscire dalle comunità per entrare, a pieno titolo, nelle vicende umane a trecentosessanta gradi.

«Gli uomini che attendono Cristo sono ancora in numero immenso», affermava il beato Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris missio sulla permanente validità del mandato missionario. E aggiungeva: «Non possiamo restarcene tranquilli, pensando ai milioni di nostri fratelli e sorelle, anch’essi redenti dal sangue di Cristo, che vivono ignari dell’amore di Dio» (n. 86). Anche Benedetto XVI, nell’indire l’Anno della fede, ha scritto che Cristo «oggi come allora, ci invia per le strade del mondo per proclamare il suo Vangelo a tutti i popoli della terra» (Lettera apostolica Porta fidei, 7); proclamazione che, come si esprimeva anche il servo di Dio Paolo VI nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, «non è per la Chiesa un contributo facoltativo: è il dovere che le incombe per mandato del Signore Gesù, affinché gli uomini possano credere ed essere salvati. Sì, questo messaggio è necessario. È unico. È insostituibile» (n. 5). Un messaggio davvero chiaro e diretto che trova una mirabile sintesi nelle parole di Benedetto XVI nella sua missiva per la Gmm: «Abbiamo bisogno di riprendere lo stesso slancio apostolico delle prime comunità cristiane che, piccole e indifese, furono capaci, con l’annuncio e la testimonianza, di diffondere il Vangelo in tutto il mondo allora conosciuto». In questa prospettiva, il Papa ci rammenta, a scanso di equivoci, che «anche oggi la missione ad gentes deve essere il costante orizzonte e il paradigma di ogni attività ecclesiale, perché l’identità stessa della Chiesa è costituita dalla fede nel Mistero di Dio, che si è rivelato in Cristo per portarci la salvezza, e dalla missione di testimoniarlo e annunciarlo al mondo, fino al suo ritorno». Ma l’annuncio, lo sappiamo bene, diventa intelligibile nella misura in cui si fa carità fattiva. Benedetto XVI, pertanto, anche quest’anno, ha ricordato l’importanza che rivestono le Pontificie Opere Missionarie, strumento privilegiato per la cooperazione alla missione universale della Chiesa, presenti in Italia attraverso la Fondazione Missio. «Attraverso la loro azione – ha ricordato il Papa – l’annuncio del Vangelo si fa anche intervento in aiuto del prossimo, giustizia verso i più poveri, possibilità di istruzione nei più sperduti villaggi, assistenza medica in luoghi remoti, emancipazione dalla miseria, riabilitazione di chi è emarginato, sostegno allo sviluppo dei popoli, superamento delle divisioni etniche, rispetto per la vita in ogni sua fase».

Per amore di tesi, facendo tesoro del mandatum novum, il cosiddetto comandamento nuovo dell’amore che trova il suo fondamento nella Santissima Trinità, vi è bisogno impellente di vocazioni missionarie. Soprattutto se si considera che nel 1990 i missionari italiani erano 24mila mentre attualmente sono circa 10mila tra sacerdoti fidei donum, missionari e missionarie ad vitam e laici impegnati . È per questa ragione che, essendo le risorse umane strategiche nel contesto dell’evangelizzazione, il servizio missionario non va considerato come una sorta d’avventura solitaria, ma interpretato come impegno condiviso. E a questo riguardo, parafrasando la Redemptoris missio (cfr. 37), va davvero rinnovato, tutti insieme, l’impegno a coniugare Parola e vita non solo in regioni geograficamente lontane, ma anche sul versante dei moderni areopaghi quali il mondo delle comunicazioni, l’impegno per la pace, lo sviluppo e la liberazione dei popoli oppressi, i diritti dell’uomo e dei popoli, la salvaguardia del creato, oltre ai vastissimi areopaghi della cultura in genere, della ricerca scientifica, dei rapporti internazionali che favoriscono il dialogo contro i fautori dello scontro tra le civiltà. In un mondo villaggio globale la vocazione ad gentes s’impone pertanto come profezia nell’ambito delle relazioni tra vecchie e giovani Chiese, tra Nord e Sud del mondo, nella consapevolezza che, proprio a partire dal Vangelo, vi è un destino comune. Una cosa è certa: nell’epoca della globalizzazione, segnata da una preoccupante crisi antropologica per cui sono in molti a negare il valore della persona umana «creata a immagine e somiglianza di Dio», in una società planetaria in cui il mercato dei beni materiali prende prepotentemente il sopravvento sui diritti sacrosanti delle masse impoverite, il valore aggiunto delle nostre comunità deve tornare a essere quello della testimonianza missionaria.

 

Si ritorna, in fondo, alla disputa millenaria tra il bene e il male da sottrarre a ogni genere di fondamentalismo perché in questo veloce e complesso divenire della storia, in cui come Chiesa siamo sempre più un piccolo gregge, soprattutto in Europa, la chiave del rapporto con Dio rimarrà sempre quella insegnataci da Gesù che ha dato la vita per ogni uomo e donna di buona volontà. Egli, è bene rammentarlo, non solo ha raccomandato l’accoglienza della «vedova, dell’orfano, dello straniero», dei cosiddetti irregolari nella fede, che chiedono riconoscimento e condivisione, ma è anche morto in Croce, dando la vita per l’umanità di ieri, di oggi, di sempre. E allora il sacrificio di tanti missionari e missionarie che cadono ogni anno sul campo, nelle periferie del mondo, nell’adempimento del loro mandato, costituisce un motivo di grande edificazione. Essi, spesso, come autentici «caschi blu di Dio», vengono violentemente messi a tacere perché difendono la vita ed i diritti dei più deboli, ma anche perché sono gli unici che fanno «scudo» tra gli eserciti e la gente comune come accade in molte zone sperdute dell’Africa. Una testimonianza che consente anche a noi, cristiani del terzo millennio, in tempi di crisi, d’individuare gli «argini» della speranza.

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