È la carta d’identità di Dio. È lo stile di una Chiesa “in uscita” con le porte aperte agli ultimi, agli emarginati. È il cuore del Vangelo di Gesù. È la chiave per entrare nello spirito del Giubileo. Soprattutto, “misericordia” è la parola, il concetto che forse meglio di ogni altro spiega la testimonianza, la vita di papa Francesco. La radice su cui si fonda la sua missione di parroco prima, di arcivescovo poi, di Pontefice oggi. Di uomo, sempre. A raccontarlo è lo stesso vescovo di Roma nel libro-intervista
Il nome di Dio è misericordia (Edizioni Piemme; pagine 120; euro15) di Andrea Tornielli, vaticanista del quotidiano
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Vatican insider, volume che uscirà contemporaneamente in 86 Paesi martedì prossimo. Un testo agile, fresco in cui papa Francesco si racconta con semplicità, percorso dalla preoccupazione, che è anche gioiosa consapevolezza, di far capire a tutti che non c’è uomo o donna su cui non si posi lo sguardo d’amore di Cristo, che non esiste colpa che non possa essere perdonata. Ecco allora il motto
Miserando atque eligendo come manifesto di vita, ecco l’umile ammissione che «anche il Papa è un uomo che ha bisogno della misericordia di Dio», ecco la decisione di indire il Giubileo. Una scelta maturata nella preghiera, «pensando all’insegnamento e alla testimonianza dei Papi che mi hanno preceduto e alla Chiesa come a un ospedale da campo». Una comunità chiamata a riscaldare il cuore delle persone con la vicinanza e la prossimità, «mostrando il suo volto di mamma all’umanità ferita». C’è, nel colloquio con Tornielli, il Papa che abbiamo imparato a conoscere, semplice e profondo al tempo stesso, ricco di aneddoti, capace di tradurre in immagini ed espressioni comprensibili a tutti, concetti complessi. Più di altre volte però Bergoglio sembra guidato dal desiderio di ricondurre ogni discorso al «cuore» del problema, di non perdere di vista neanche per un attimo il richiamo al dono della misericordia, tanto sovrabbondante da apparire perfino ingiusto agli occhi umani. Siamo infatti di fronte a un Dio che conosce i nostri peccati, i nostri tradimenti, i nostri rinnegamenti, la nostra miseria. «Eppure è lì che ci attende, per donarsi totalmente a noi, per risollevarci». Ma per sperimentarlo servono sacerdoti che siano pastori e non aridi dottori della legge, c’è bisogno di confessori come padre Carlos Duarte Ibarra che il giovane Bergoglio incontrò in parrocchia il 21 settembre 1953, nella festa di san Matteo. Come il salesiano don Enrico Pozzoli, come il sacramentino padre José Ramón Aristi di cui il Papa porta sul petto la piccola croce in legno. Preti in grado di mettere in pratica «l’apostolato dell’orecchio» cioè di ascoltare con pazienza i drammi e le difficoltà delle persone, ma anche di parlare, di dire che Dio vuole loro bene. Capaci di perdonare molto perché coscienti della propria condizione di peccatori, del proprio bisogno di misericordia. Una consapevolezza che deve renderci attenti a rispettare sempre la dignità dell’altro, a non ferire mai chi ci sta di fronte. Perché l’amore di Dio è anche per chi, ad esempio, non è nella disposizione di ricevere il sacramento. Come il divorziato risposato, marito di una nipote di Bergoglio, che tutte le domeniche, andando a Messa, si avvicinava al confessionale e diceva al sacerdote: «Io so che lei non mi può assolvere, ma ho peccato in questo e in quell’altro, mi dia una benedizione».Esemplare la vicenda della giovane madre costretta a prostituirsi per dar da mangiare ai figli, che va dal parroco Bergoglio a ringraziarlo di «non aver mai smesso di chiamarla signora» anche quando suo malgrado era costretta a vendersi. E a Tornielli che gli chiede della famosa espressione “Se una persona è gay, cerca il Signore e ha buona volontà chi sono io per giudicarla?”, il Papa ricorda l’importanza «che si parli di “persone omosessuali”», perché «prima c’è la persona, nella sua interezza e dignità». «Io preferisco – aggiunge – che le persone omosessuali vengano a confessarsi, che restino vicine al Signore, che si possa pregare insieme. Puoi consigliare loro la preghiera, la buona volontà, indicare la strada, accompagnarle».Solo in un caso, nel libro-intervista, Francesco sembra cambiare registro, alzare apparentemente i toni, diventare duro. Succede quando parla di
corruzione, cioè del peccato «che invece di renderci umili, viene elevato a sistema, diventa un abito mentale, un modo di vivere». Il corrotto, avverte Bergoglio, «è colui che pecca e non si pente, che pecca e finge di essere cristiano e con la sua doppia vita dà scandalo». È chi si indigna perché gli rubano il portafoglio, si lamenta per la scarsa sicurezza ma poi truffa lo Stato evadendo le tasse, e magari licenzia i suoi impiegati ogni tre mesi per non assumerli a tempo indeterminato, oppure sfrutta il lavoro in nero. E magari «si vanta pure con gli amici per queste sue furbizie». «Come chi ha l’alito pesante» – aggiunge il Papa – il corrotto spesso non si accorge neppure del suo stato. Eppure il Signore non abbandona neppure lui, lo salva attraverso prove che «spaccano il guscio» che si è costruito poco a poco, permettendo alla grazia di Dio di entrare. Perché nella logica del Padre «la sola misura della giustizia non basta. Con la misericordia e il perdono Dio va oltre la giustizia, la ingloba e la supera in un evento superiore nel quale si sperimenta l’amore, fondamento di una vera giustizia». Il nostro, infatti, è il Signore che fa il primo passo, che ci viene incontro, che cerca anche il più piccolo spiraglio per far entrare la grazia. Che non si stanca mai di perdonare. Che fa festa per un cuore pentito.
Struggente e bellissima in questa chiave l’omelia pronunciata da papa Francesco il 7 aprile 2014 e ripresa da Tornielli. È «come il cielo – disse Bergoglio –: noi guardiamo tante stelle, ma quando viene il sole al mattino, con tanta luce, le stelle non si vedono. Così è la misericordia di Dio: una grande luce di amore, di tenerezza, perché Dio perdona non con un decreto ma con una carezza».