Paolo Pezzi, arcivescovo di Mosca - Fotogramma
La sua storia personale e il cammino della comunità che guida dal 2007. Sono i due filoni che si intrecciano nel volume, appena pubblicato da Edizioni Ares: “La piccola Chiesa nella grande Russia” (pagine 192, euro 16), il libro-intervista in cui l’arcivescovo di Mosca, monsignor Paolo Pezzi si racconta al giornalista di Avvenire, Riccardo Maccioni. Dal dialogo ecumenico ai rapporti con le istituzioni civili e politiche, dalla post pandemia al percorso sinodale, il presule offre uno spaccato particolare, ma da una prospettiva privilegiata, della realtà russa. Al centro, l’oggi di una Chiesa di minoranza, che può significare timore, ma, anche, più coraggio nel testimoniare ciò che si crede. Perché quando si è numericamente piccoli, spiega monsignor Pezzi, «l’identità viene sollecitata ogni giorno, e ogni giorno sei chiamato a verificarne la consistenza che è Cristo stesso ». Sullo sfondo, naturalmente, i venti della crisi sfociati in invasione militare, anche se la pubblicazione risale a prima della guerra vera e propria.Tratta dal libro “La piccola Chiesa nella grande Russia”, pubblichiamo l’introduzione.
Un piatto di brodo con una patata. Ingredienti semplici, umili, che non immagini come menù di un giorno di festa, quando usi la tovaglia più bella e sulla tavola non può mancare un fiore. Il discorso cambia se quel cibo povero, che condividi con l’ospite, è il meglio che hai. Perché allora diventa dono speciale, unico, come i due spiccioli dell’obolo che nella logica evangelica sono tra tutte l’offerta più preziosa. Monsignor Paolo Pezzi, oggi arcivescovo della Madre di Dio a Mosca, lo ha sperimentato il primo Natale vissuto in Siberia. Lì, nella Russia a maggioranza ortodossa che celebra la nascita di Gesù il 7 gennaio, il 25 dicembre è per i più un giorno uguale agli altri.
Dopo la Messa nella chiesa del villaggio con una cinquantina di fedeli e fuori venti gradi sottozero, il parroco gli aveva chiesto di andare a portare l’Eucaristia a una vecchietta che non stava bene. La signora l’aveva accolto felicissima. Dopo la Comunione, l’invito: «Padre, oggi è Natale, si fermi a pranzo». Era molto povera e gli offrì appunto un piatto di brodo con una patata. Che differenza con la tavola imbandita di casa, com’erano belle le luci e l’atmosfera della Romagna e poi di Roma, com’era partecipata la Messa di mezzanotte!
Era chiaro che quel semplice invito era in realtà una “prova”, un bivio. Si trattava di decidere tra la nostalgia e la realtà, tra un futuro ricco di incognite e la possibilità di tornare alla maggiore comodità del già conosciuto. «Io guardai quel semplicissimo pasto e mi dissi: tu devi decidere, o questo per te è tutto oppure chiedi al tuo superiore di tornare in Italia, perché qui probabilmente non ci sarà molto di più. Quindi, o riconosci che vivere la fede e la missione è questo, e ti basta, e ti dà soddisfazione, oppure è meglio essere sinceri e dire “non ce la faccio”, e ritornare. Ricordo che mi misi a piangere e andai a casa veramente contento.
Ecco, forse per me la cosa più scioccante è stata che un momento così bello, importante e significativo come il Natale avvenisse in condizioni tali per cui nessuno, o quasi, se ne accorgesse. Proprio come nella notte di Betlemme». Un rimando, un richiamo all’essenza stessa della fede, quella che si testimonia nella quotidianità dell’esistenza ordinaria. E che è alla base del sì alla richiesta di vivere in una realtà tanto diversa dalle tue origini, cambiando cultura, punti di riferimento, abitudini, dentro e poi alla guida di una comunità piccola però immersa in un territorio sconfinato, grande sette volte l’Italia, come è l’arcidiocesi della Madre di Dio a Mosca. Ma proprio per questo chiamata più che altrove alla maturità che, spiega monsignor Pezzi, si fonda su due elementi: una chiara e vissuta identità come appartenenza a Cristo, e la consapevolezza di avere qualcosa di buono da dare a tutti.
«Per me è sempre molto toccante, soprattutto quando visito le parrocchie a migliaia di chilometri da Mosca sentire, veder testimoniare la stessa unica fede, anche nel dettaglio, nella diversità della lingua. C’è unità sull’essenziale. Di contro, la realtà cattolica è molto frastagliata, con comunità nazionali, soprattutto nelle grandi città (per la mia diocesi Mosca, San Pietroburgo, Nizhny Novgorod e Kaliningrad). Significa una presenza di studenti, giovani e, in alcuni casi, di adulti provenienti da altri Paesi, ma già con una loro buona stabilità qui in Russia, per i quali è necessario avere una cura specifica. Parlo per esempio delle comunità vietnamita, armena e coreana».
Dentro il perimetro della Russia, tutto è di più. Più chilometri da percorrere, più lingue, più incroci di culture e vissuti, più bellezza da condividere. Ma anche, a volte, più timore nel testimoniare ciò che si crede. «Può essere facile cercare rifugio in una appartenenza etnica oppure in un ghetto, cioè crearsi un àmbito in cui “difendersi” dal mondo esterno.
Il rischio è che questi timori diventino invincibili, risultino granitici. Per vincerli occorre, da un lato, la riscoperta della propria identità come consistenza in Cristo stesso, dall’altro, la consapevolezza che si è portatori di un messaggio buono e soprattutto destinato a tutti. Una presa di coscienza che porta anche a un buon approccio ecumenico.
Dove la comunità cattolica, magari piccolissima, vive una sua chiara identità ed è consapevole di portare qualcosa di positivo, nascono iniziative in àmbito caritativo e culturale, assieme soprattutto agli ortodossi, ma anche con alcune comunità protestanti.
Un frutto molto bello è un centro culturale, a Mosca, in cui, in tempi normali, si organizza un numero elevatissimo di eventi, fino a 200, 220 all’anno! Per la maggior parte si tratta di incontri con cattolici e ortodossi che affrontano insieme temi che riguardano la vita della gente, dalla politica all’architettura, dalla religione all’economia».
Per la piccola comunità cattolica, l’ecumenismo è una via obbligata, necessaria. «Direi che c’è un dialogo “permanente”, fatto di incontri, durante l’anno, a livello istituzionale. Devo aggiungere che con il metropolita Hilarion (presidente del Dipartimento delle relazioni esterne del Patriarcato di Mosca) si è sviluppato un rapporto personale anche fuori da quei momenti. E ogniqualvolta ho avuto delle necessità ho sempre trovato in lui disponibilità ad ascoltarmi e a cercare di risolvere i problemi».
Importante per la maturazione dei rapporti con la maggioranza ortodossa è stato l’incontro del 12 febbraio 2016 a Cuba tra il Papa e il patriarca Kirill. «Certamente, ha aiutato soprattutto a superare, anche se non ci siamo ancora riusciti del tutto, quei muri di pregiudizio che ci accompagnano da secoli. Quell’incontro e la “Dichiarazione comune” che ne è frutto sono stati utili a dare impulso a una testimonianza condivisa dell’essenziale della fede, dentro le realtà e le condizioni in cui viviamo.
La base, però, non si sente molto coinvolta nel dialogo ecumenico, è abbastanza indifferente e diffidente. Ma questo vale, in misura persino maggiore per la parte ortodossa». Il che non toglie che esistano segnali molto significativi per la crescita del dialogo interconfessionale. «Per esempio, alla vigilia di Pentecoste, ormai da alcuni anni organizziamo una veglia invitando le diverse realtà cristiane presenti a Mosca. Non dico che vengano tutte e in gran numero, però il dato di per sé è significativo. A unirci è la preghiera per le necessità dei cristiani, soprattutto quelli perseguitati».
Si fa fatica, guardando dall’Italia, a pensare a una comunità cattolica minoritaria. «I problemi non sono solo di natura “spirituale”, ma molto concreti, di tipo materiale. Significa che se tu vuoi costruire una chiesa non lo puoi fare facilmente, vuol dire che per dare una vita dignitosa ai tuoi preti devi metterti a cercare dei finanziamenti in giro, delle offerte, perché quello che si riceve dalle parrocchie non basta».
C’è poi il versante politico amministrativo. «Quando si è una minoranza, basta che tu non abbia pagato nel momento giusto le tasse, magari per una dimenticanza, che rischi di trovarti in difficoltà». Essere piccoli però è anche un vantaggio. «Se si è seri e un po’ ironici, si capisce che non si ha nulla da difendere. E questo ti alleggerisce.
Inoltre, c’è la possibilità di avere relazioni interpersonali molto più strette e sei costretto a vivere più criticamente la fede. A chiederti cosa significa per te credere, se è la tua felicità, se ne sei realmente contento». Domande che un giorno in Siberia sono diventate il menù di un Natale ricco, unico. Anche se sotto le sembianze di un pasto umilissimo: solo un piatto di brodo. Con una patata. L’arcivescovo di Mosca, Paolo Pezzi e la copertina del libro in cui si racconta
La copertina - Ares