martedì 29 giugno 2021
Il vicario generale dell'istituzione laicale fondata da san Josemaría Escrivá riflette su come i cristiani, la Chiesa e la Prelatura possono affrontare le sfide che si aprono nel mondo post-pandemia
Don Mariano Fazio, vicario generale dell'Opus Dei

Don Mariano Fazio, vicario generale dell'Opus Dei

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«A volte pensiamo che la situazione che stiamo attraversando è unica nella storia. In realtà, ci sono molte somiglianze con altri momenti nei quali i cattolici si trovavano in schietta minoranza, o la fede cristiana era ignorata o male interpretata». Via l’alibi dei "tempi duri": ci sono stati mai tempi in discesa per un cristiano? Quelli che attraversiamo non fanno certo eccezione: le incomprensioni però non devono far pensare che sia il caso di limitarsi allo stretto necessario, al darsi ragione tra chi è già convinto, a lasciare che il mondo vada per i fatti suoi. Sì, ma oggi come si fa?

È per affrontare questa sfida che don Mariano Fazio, vicario generale dell’Opus Dei, ha messo mano a un piccolo e denso libro, appena pubblicato in italiano Cambiare il mondo dal di dentro (Ares), utilizzando per attualizzare la missione dei laici nella società post-moderna (e post-pandemica) le categorie evangeliche della santità laicale in mezzo al mondo sviluppate da san Josemaría Escrivá, fondatore di quella che oggi è una Prelatura personale diffusa in tutto il mondo, e del quale si è appena celebrata la memoria liturgica (26 giugno). Argentino di Buenos Aires, 61 anni, Fazio è il primo collaboratore del prelato, lo spagnolo don Fernando Ocáriz.

La pandemia ha scavato in profondità nella vita, nella mente e nel cuore delle persone. Qual è il servizio dei cristiani in questo momento di transizione e di ritrovata speranza?
Il cristiano, nelle parole di san Josemaría, è «un altro Cristo, Cristo stesso». Dobbiamo chiederci continuamente: come avrebbe reagito nostro Signore in questa circostanza che sto vivendo? Credo che la reazione di nostro Signore in questa situazione sarebbe di compassione (cum patire, soffrire con gli altri), di empatia (mettersi nelle circostanze degli altri e capire le loro reazioni), di accompagnare coloro che sono più soli, o che hanno perso una persona cara, o che si trovano in una situazione materiale difficile. Allo stesso tempo, il cristiano deve essere un seminatore di speranza: deve chiedere al Signore la grazia di saper trasmettere agli altri la vicinanza di Gesù. La crisi sanitaria sarà superata, molte cose cambieranno, ma noi rimarremo gli stessi: persone bisognose dell’aiuto del Signore, che ci dà la forza di essere molto vicini agli altri.

Si parla di "ritorno alla normalità". Ma cos’è la "normalità" per un cristiano che vive da laico nel mondo?
Il Signore ha dato a tutti noi una vocazione alla santità. Per la maggior parte delle persone, le chiama a santificarsi in mezzo al mondo. La "normalità" sono le circostanze ordinarie in cui si svolge l’esistenza quotidiana: la famiglia, l’ambiente di lavoro, i luoghi o le attività in cui ci riposiamo. La normalità di un laico consapevole che il Signore lo chiama alla santità consiste proprio nello scoprire in queste circostanze apparentemente anodine il luogo dove vivere una vita cristiana coerente. Lì troviamo lo spazio dell’unione con Dio e del servizio agli altri. Se cercassimo la santificazione al di fuori della "normalità" potremmo cadere in un’evasione spiritualistica, che si rivelerebbe sterile.

Cos’ha insegnato la pandemia all’Opus Dei?
Le persone dell’Opus Dei, nella misura in cui sono immerse nel mondo, hanno condiviso e continuano a condividere con tutta l’umanità l’esperienza della fragilità e della vulnerabilità umana. Nell’Opus Dei abbiamo sofferto la perdita di molti fedeli – laici e sacerdoti – o di parenti stretti. Viviamo queste situazioni con il naturale dolore umano e con la speranza nella vicinanza di nostro Signore. Allo stesso tempo, abbiamo cercato di essere molto attenti a coloro che, per varie ragioni, sono stati o sono più vulnerabili: i malati, le persone che vivono sole. La pandemia ci ha anche insegnato nuovi modi di comunicare la fede, attraverso i media digitali che in questi mesi si sono sviluppati incredibilmente.


Nel suo libro lei ricorda la necessità di «cambiare il mondo dal di dentro». Come lo si può fare nella società di oggi, che spesso sembra suggerire ai credenti di non mettere in discussione i suoi assiomi di libertà assoluta e individualismo?
Per cambiare il mondo è necessario che il cristiano sia unito a Gesù con un’amicizia personale basata sull’Eucaristia e sulla preghiera, attraverso l’esempio di una vita coerente tra ciò che si crede e ciò che si fa, e conducendo uno stile di vita evangelico segnato dalle beatitudini. La gioia e la speranza cristiana, la misericordia, la compassione e lo spirito di servizio cambieranno gradualmente questa società individualista. È un processo che avviene senza violenza, ma con la naturalezza con cui i primi cristiani trasformarono il mondo pagano. Papa Francesco ha incoraggiato il prelato dell’Opus Dei a seguire il loro esempio, per ricristianizzare questa società secolarizzata.

A quali nuove frontiere la Prelatura incoraggia a spingersi i fedeli laici che ne fanno parte?
Sono appena tornato da un viaggio in Africa. Mi ha dato grande gioia vedere alcune istituzioni promosse da fedeli dell’Opus Dei, che hanno iniziato molto umilmente negli anni ’60, e sono state le prime scuole interrazziali. In quegli anni l’uguaglianza razziale era una frontiera da conquistare. I tempi cambiano e le sfide sono nuove. I fedeli dell’Opera, con spontaneità e iniziativa, cercano di essere là dove c’è bisogno di una coerente testimonianza cristiana. Il nostro fondatore parlava di «annegare il male in un’abbondanza di bene». Penso ora a tante iniziative per sviluppare unità di cure palliative, in un momento in cui si sta diffondendo una mentalità a favore dell’eutanasia. Questo è solo un esempio: illustra che le frontiere cambiano, ma lo spirito apostolico rimane lo stesso.

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