L'arcivescovo Sviatoslav Shevchuk, capo della Chiesa greco-cattolica ucraina, al memoriale di otto civili uccisi dai militari russi a Bucha un anno fa - Chiesa greco-cattolica
Già nel nome la Cattedrale di Kiev racconta la Pasqua. Perché è dedicata alla Risurrezione. Si arriva in silenzio davanti all’imponente chiesa bianca sulla riva destra del fiume Dnepr, sfidando anche gli allarmi antiaerei. «Un anno fa, quando qui abbiamo celebrato la nostra prima Pasqua di guerra, tutti abbiamo esclamato: “Il Cristo è risorto; risorgerà l’Ucraina”. Adesso ne restiamo più che mai convinti», spiega l’arcivescovo maggiore Sviatoslav Shevchuk. La sua gente lo chiama il “patriarca”: ha 52 anni e dal 2011 guida la Chiesa greco-cattolica ucraina.
L'arcivescovo Sviatoslav Shevchuk durante l'intervista con "Avvenire" - Chiesa greco-cattolica
La Cattedrale è stata un rifugio. E domenica 16 aprile accoglierà i riti della “grande” Pasqua che arriva a una settimana da quella latina e dell’Occidente. Una Pasqua ancora sotto le bombe che unisce tre Chiese del Paese: quella greco-cattolica e le due ortodosse, una che affonda le sue radici nel patriarcato di Mosca, l’altra che si è staccata dalla Russia negli anni Novanta ed è stata riconosciuta come autocefala nel 2018. Una vicinanza solo apparente, limitata al calendario. Perché l’invasione voluta da Putin ha sconvolto anche il mondo cristiano dentro l’Ucraina. Con la Chiesa in comunione con Mosca che è finita nel mirino del governo per la sua contiguità al nemico e che sta alimentando proteste in stile “crociate”. «Dopo un anno dall’invasione, la società ucraina è profondamente ferita. E, quando in questo clima s’innesta la discussione sui traditori all’interno di una Chiesa che non sa rispondere alle domande del popolo sofferente ed è sempre stata vicina al potere, è una tragedia. Tutti i sondaggi registrano un calo significativo dell’autorità morale della Chiesa in Ucraina proprio a causa di tali scandali. La gente non capisce e quindi non si fida. Perciò indirettamente noi tutti sentiamo l’eco dello scontro fra una Chiesa e il governo. E ciò favorirà la secolarizzazione», spiega Shevchuk in un italiano fluente, frutto anche dei suoi studi all’Angelicum di Roma. È un riferimento per il Paese, l’arcivescovo maggiore di Kiev. Amato e ascoltato.
A novembre e poi a gennaio ha incontrato il Papa. Francesco ha nel cuore l’Ucraina?
Il Pontefice è accanto al popolo ucraino, come indica la Lettera di novembre alla nazione e come mostra il suo costante richiamo alla “martoriata Ucraina”. Posso testimoniare che il Papa soffre a causa della guerra. Per più motivi. Sa che è un abisso per l’umanità. È convinto che l’invasione sia un orrore ingiustificato che però finora i russi non sono stati in grado di riconoscere. Ma c’è anche un’altra sofferenza del Papa che ho avvertito: è quella dell’impotenza. Non si riesce a fermare le armi e le sue parole non vengono ascoltate. Inoltre il conflitto in corso dice di una profonda crisi della diplomazia a livello mondiale.
Francesco può essere un mediatore fra Mosca e Kiev? O, come ha detto anche la Santa Sede, non ci sono le condizioni?
Affinché si apra una trattativa, entrambe le parti devono fidarsi del mediatore. Per il momento devo purtroppo ritenere che non c’è un clima politico di fiducia nei confronti del Papa: né sul versante russo, né su quello ucraino. La Russia è a maggioranza ortodossa e non vede nel Pontefice un leader autorevole. E il solo scopo del Cremlino è strumentalizzarlo per fini di propaganda esterna. Se guardiamo a Kiev, dobbiamo costatare un raffreddamento delle relazioni fra Ucraina e Santa Sede. Questo anno di guerra è stato l’anno delle grandi incomprensioni. Il governo ucraino non capisce le proposte e i gesti di pace fatte dalla Santa Sede come, ad esempio, l’idea di una conferenza sintetizzata nella formula “Helsinki 2”. E la scelta vaticana di restare al di sopra delle parti non è capita. Anche la doppia visita ipotizzata dal Papa, prima a Mosca e poi a Kiev, è per adesso rigettata nelle due capitali. Certo, va favorito l’impegno della Santa Sede a far tacere le armi e ad aprire una fase nuova, ossia quella dei negoziati.
Francesco ha un ruolo chiave nella liberazione dei detenuti di guerra.
Vero, quella del Papa è una straordinaria “missione umanitaria”. Sono decine di migliaia i prigionieri. Si tratta di militari ma anche di civili che vengono imprigionati, torturati, esiliati. Fra loro ci sono i bambini stati deportati in Russia: la Corte di giustizia internazionale dell’Aia lo ha certificato ritenendo tutto ciò un crimine di guerra. Cito anche il caso della regione di Donetsk dove mezzo milione di persone è sparito nel nulla.
L'arcivescovo Sviatoslav Shevchuk, capo della Chiesa greco-cattolica ucraina, durante la lavanda dei piedi - Chiesa greco-cattolica
Due sacerdoti redentoristi greco-cattolici di Berdyank sono nelle mani dei russi da cinque mesi, arrestati a novembre nei territori occupati.
Da tempo tentiamo di liberarli, ma dovranno celebrare la Pasqua in carcere. Allora viene da chiedersi: chi può salvarli? Chi può alleviare il loro dramma? Rispondo che può farlo soltanto il Papa. Non c’è alcun altro. E abbiamo provato che funziona. Ho consegnato al Pontefice numerose liste di prigionieri su cui si continua a lavorare. Poi, come cattolici, siamo riconoscenti a Francesco per il tanto che ha fatto di fronte alla crisi umanitaria. Una crisi, che anche grazie al Papa e alla solidarietà internazionale, non è degenerata in catastrofe. Ad esempio, nella parte del Paese controllata o liberata dall’Ucraina, nessuno è morto di freddo o fame nonostante un terzo dei 46 milioni di ucraini abbiano abbandonato le loro case. Mi auguro che l’Europa non si stanchi di sostenerci.
C’è stanchezza fra la gente?
Vari sentimenti si sono alternati in oltre 400 giorni di attacchi. All’inizio ha prevalso l’odio che però logora l’uomo. E noi cristiani abbiamo provato a trasformarlo in fortezza. Adesso è il tempo del dolore, più che della stanchezza. C’è un dolore fisico: penso ai nostri ospedali pieni di feriti. E c’è un dolore psicologico e spirituale. La sofferenza sta diventando anche una questione sociale e politica racchiusa in un interrogativo: come gestire il trauma della guerra? Penso che il futuro dell’Ucraina non solo dipenderà dalla sua abilità a difendersi ma anche dalla capacità di fronteggiare la sofferenza. E il nostro popolo ferito legge tutto ciò che viene detto o scritto attraverso la lente del dolore. Ogni parola positiva verso la Russia provoca un grido: non era mai successo in Ucraina.
Ma c’è voglia di pace?
Non c’è un altro popolo del mondo che preghi per la pace quanto il popolo ucraino. Oggi qui la meta da raggiungere viene descritta con il vocabolo “vittoria” che per noi è sinonimo di pace. Gli ucraini sanno che senza la ritirata dell’aggressore e la liberazione dei territori invasi non ci sarà pace. I dieci punti del presidente Zelensky non sono una sua invenzione, ma una raccolta delle intuizioni del popolo. Un’altra soluzione di pace non verrà accettata, soprattutto se sembrerà una riconciliazione imposta. Qualcuno ci chiede: ma perché continuate a combattere? Lo facciamo perché altrimenti saremo davanti a un’altra “soluzione finale”: la cancellazione del nostro popolo. Resistiamo perché sappiamo che non abbiamo un’altra scelta, perché vogliamo che la nostra nazione sopravviva.
L'arcivescovo Sviatoslav Shevchuk, capo della Chiesa greco-cattolica ucraina - Chiesa greco-cattolica
La guerra ha portato alla riforma del calendario liturgico. La Chiesa greco-cattolica si stacca da quello giuliano che segue anche il patriarcato di Mosca. Nonostante la Pasqua rimanga legata alla data bizantina, festeggerete il Natale e l’Epifania come in Occidente. Una scelta politica?
Politicizzare il calendario non aiuta. È la Chiesa di Mosca che considera il calendario giuliano alla stregua di un dogma di fede. L’invasione su vasta scala ha provocato una rapida e profonda trasformazione della società ucraina. Tutti i paradigmi su cui facevano leva i cosiddetti esperti non sono più validi. Anche noi pastori dobbiamo riscoprirla ogni giorno. Il calendario è sempre stato un tema delicatissimo e un segno d’identità. Con la guerra si è innescato nella Chiesa ortodossa autocefala un movimento per allontanarsi da Mosca che ha riguardato anche il calendario. Un movimento che ha provocato il Paese. Così anche noi ci siamo resi conto che era arrivato il Kairos, il tempo giusto per intervenire, sostenuti da un contesto sociale favorevole. E sa qual è stata la reazione del popolo? “Finalmente, abbiamo atteso molto”. Di fatto la nostra Chiesa ha riconosciuti i segni dei tempi.
Un passo verso l’Occidente?
Non intendiamo compiacere nessuno. Nel periodo post-sovietico non si festeggiava il Natale ma il Capodanno che era una ricorrenza comunista. Poi la società dei consumi ha portato Natale da noi. Un Natale laico che si celebra il 25 dicembre e che sembrava in contrapposizione con il Natale cristiano del 7 gennaio. La riforma del nostro calendario vuole anche alimentare il senso cristiano del Natale che la popolazione vive. È una revisione che punta all’evangelizzazione.
Nelle quattro regioni occupate non rimangono sacerdoti cattolici. Come si vive la fede?
Come nei più bui periodi dello stalinismo. Ad oggi non c’è spazio neppure per una Chiesa clandestina perché la società è ipercontrollata. I sacerdoti che sono stati espulsi hanno invitato a tenere accesa la fiammella della vita comunitaria. Ma spesso è accaduto che chi ne faceva parte è stato arrestato o esiliato. Inoltre, se non si ha la cittadinanza russa, la libertà di movimento viene limitata: quando non ti è concesso di uscire di casa, come puoi ritrovarti insieme per pregare? Ed è anche rischioso seguire online le celebrazioni: i cellulari vengono setacciati per fermare i partigiani ucraini. Inoltre è vergognoso il modo di comportarsi della Chiesa ortodossa russa in queste zone. Si impone come unica Chiesa e collabora con gli occupanti anche per opprimere la gente. I nostri prigionieri rilasciati raccontano di aver subìto torture dai miliari russi che erano incoraggiati dai loro preti.