La prima volta di un pontefice in terra africana ha il volto di Paolo VI e del popolo ugandese. Quarant’anni fa, di questi giorni, papa Montini era nel cuore – non solo geografico – del continente nero per il suo ottavo pellegrinaggio internazionale. Una visita al solito breve e intensa, secondo il suo stile: dal 31 luglio al 2 agosto. In Africa c’era già stato, da arcivescovo di Milano, visitando la Rhodesia, la città sudafricana di Pretoria, la Nigeria e il Ghana, dal 19 luglio al 19 agosto 1962. Un viaggio pastorale che l’aveva portato nelle missioni, ma pure fra i cantieri di tanti lavoratori milanesi impegnati in quelle terre. Inoltre, da Papa, nell’ottobre 1964, alla presenza dei Padri conciliari, aveva canonizzato a Roma i ventidue martiri cattolici ugandesi beatificati da Benedetto XV, il più noto dei quali, Carlo Lwanga, era stato arso vivo, insieme a cristiani di altre confessioni, nel 1886, a Namugongo. Proprio là dove nel suo viaggio in Uganda del 1969, Paolo VI volle consacrare l’altare del grande santuario eretto sul luogo del martirio, in uno dei più solenni momenti della «trasferta » iniziata all’aeroporto di Entebbe nel pomeriggio del 31 luglio dopo un volo di sei ore, lanciando il messaggio «Dio benedica l’Africa!». «Voi potete star certi che la Chiesa non rimarrà una spettatrice passiva», dichiarò subito all’arrivo. E citati brani dell’enciclica Populorum progressio (sulla lotta alla miseria e all’ingiustizia, sulla promozione del progresso materiale e spirituale), affermò: «Possa la Nostra presenza qui, per l’intercessione dei Santi Martiri dell’Uganda, dare inizio all’immenso movimento di amore fraterno, che trasformi la pace e il progresso dei popoli da meta ideale a trionfante realtà». Poco dopo papa Montini entrava nella Cattedrale di Kampala, atteso da cinque capi di Stato e dai vescovi africani riuniti dal primo Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar, presto colpiti dal suo discorso, un inno alla maturità della loro Chiesa. «Voi africani siete oramai i missionari di voi stessi. La Chiesa di Cristo è davvero piantata in questa terra benedetta», affermò, pur definendo quella della presenza dei missionari «una storia, che ancora dura e deve durare per lungo tempo, anche se voi africani ne prendete ora la direzione». E spiegò: «Missionari di voi stessi: cioè voi africani dovete proseguire la costruzione della Chiesa in questo continente...». Pareva allora uno slogan, un azzardo: si rivela decenni dopo un’indicazione profetica. In Africa si può dubitare ancora di molte cose: non però del passaggio dell’iniziativa missionaria ad gentes dalle antiche alle giovani Chiese; non delle risorse spirituali dell’episcopato, del clero, del laicato africano. Certo restano ancora difficoltà nel declinare quella che Montini definì la via corretta dell’aggiornamento e dell’inculturazione. Come ovunque: «Non siamo noi gli inventori della nostra fede; noi siamo i custodi. Non ogni religiosità è buona, ma solo quella che interpreta il pensiero di Dio, secondo l’insegnamento del magistero apostolico, stabilito dall’unico maestro, Gesù Cristo. Ma, data questa prima risposta, viene la seconda: l’espressione, cioè il linguaggio, il modo di manifestare l’unica fede può essere molteplice e perciò originale e conforme alla lingua, allo stile, all’indole, al genio, alla cultura di chi professa quella unica fede. Sotto questo aspetto un pluralismo è legittimo, anzi auspicabile». L’1 agosto Paolo VI continuava il viaggio a Kololo Terrace per la consacrazione di dodici vescovi africani – il numero degli apostoli – richiamati nell’omelia alle loro responsabilità. «Voi dovete costruire la Chiesa» e anche «prestare il vostro servizio per aiutare la costruzione della società civile, sebbene liberi da impegni politici e da interessi temporali ». Nello stesso giorno altri interventi nella linea della «Chiesa esperta in umanità». Con papa Montini – su invito del presidente ugandese Milton Obote – in Parlamento a Kampala, a parlare di pace e di sviluppo invitando a non temere la Chiesa: «Ella nulla vi toglie; e vi porta, con il suo sostegno morale e pratico, l’unica, la vera, la somma interpretazione della vita umana nel tempo e oltre il tempo, quella cristiana». Rivolto poi a deputati e senatori osservò in questa luce i problemi della libertà dei territori nazionali e dell’uguaglianza delle razze. Mentre incontrando i diplomatici indicò Cristo come «il principe della pace». Si soffermò anche sull’Africa rurale, chiedendo, dal piccolo villaggio di Mengo, cooperazione internazionale e aiuto allo sviluppo. Papa del dialogo, parlò sempre l’1 agosto anche ai rappresentanti dell’islam indicando i benefici dell’unità e della pace tra tutti i figli dell’Africa, partecipi dello stesso destino. Inaugurò un nuovo ospedale cattolico a Ribaga e visitò quello di Mulogo. Né dimenticò la missione dei laici incontrando membri dell’Azione cattolica: «L’Africa deve trovare e dimostrare nuove e originali forme di espressione e di organizzazione dei laici. Allo stesso tempo non deve trascurare la secolare esperienza di molti e ben affermati movimenti di altre parti del mondo». Ricordò loro ancora il sacrificio dei martiri ugandesi, oggi ritenuti i protettori dell’Africa moderna, speranza per la Chiesa universale. E proprio alla commemorazione di essi – tra i quali anche degli anglicani associati nel ricordo oltre l’esclusivismo di una santità cattolica – dedicò il 2 agosto una giornata di memoria e di ecumenismo: «Nello spirito di ecumenismo dei martiri, noi non possiamo risolvere le nostre differenze attraverso una semplice riconsiderazione del passato, o un giudizio su di esso. Invece, noi dobbiamo andare avanti nella fiducia che ci verrà data nuova luce per guidarci alla nostra meta». Negli stessi giorni anche un tentativo di mediazione per la risoluzione del conflitto fra Nigeria e Biafra, con etnie in lotta per motivi tribali e il controllo dei giacimenti petroliferi. Colloqui riservatissimi nei quali – commentò Federico Alessandrini, 'colonna' de L’Osservatore Romano, alla fine del viaggio – il Papa diplomatico aveva «sempre parlato apertamente, guardando fisso l’interlocutore, quasi a sondarne lo spirito».